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LE 5+1 EMOZIONI DI BASE

LE 5+1 EMOZIONI DI BASE

A cosa servono le emozioni?

Saper riconoscere, comprendere e, di conseguenza, gestire le emozioni permette ai nostri bambini di  adattarsi in maniera ottimale ai vari contesti di vita, apprendendo strategie per fronteggiare sia situazioni piacevoli che spiacevoli. Le emozioni sono molte…e le situazioni che si possono incontrare sono ancora di più! Attraverso questo percorso le approfondiremo insieme e vi darò qualche trucchetto e consiglio su come aiutare i vostri bimbi a gestirle al meglio!

Ma prima di cominciare facciamo una rapida carrellata delle principali emozioni che andremo a conoscere nei prossimi articoli. Come avete potuto intuire dal titolo, si parla di 5 emozioni di base, a cui recentemente se ne è aggiunta un’altra:

  • Felicità
  • Tristezza
  • Rabbia
  • Paura
  • Disgusto 

+1. Sorpresa 

Ovviamente non finiscono qui…esistono anche emozioni più “complesse” come imbarazzo, timidezza, preoccupazione e così via.

Ma perché dare tutti questi nomi alle emozioni?

È importante che i nostri bimbi posseggano un adeguato vocabolario emotivo per poter distinguere ciascuna sensazione provata; è fondamentale dare il giusto nome alle cose! Questo risulta utile, però, non solo a loro stessi ma anche a noi adulti. Pensate a quando vedete sul loro visino un’espressione “strana”; la prima cosa che fate è chiedere “Cos’è successo? Come ti senti?”. Se non sono in grado di utilizzare il giusto termine per esprimere il loro stato d’animo, di conseguenza anche noi non sappiamo come poterli aiutare per fornire loro la soluzione/strategia migliore. Dare il giusto nome ci permette di ottenere l’aiuto delle persone che ci stanno vicino. 

Piccolo consiglio per voi genitori: anziché porre ai vostri figli delle domande così generali, perché non aiutarli già a discriminare quale emozione stanno provando? Ad esempio, “Mi sembri proprio felice oggi!” oppure “Vedo che sei molto dispiaciuto”. In questo modo, un passetto alla volta, impareranno a riconoscere e a comunicare i loro stati d’animo. 

A questo proposito, impareremo come per ogni emozione corrispondano varie gradazioni di intensità, ciascuna con un lessico specifico. Introdurremo anche lo strumento del termometro, in grado di farci comprendere le sfumature, da quelle meno intense a quelle più intense. 

Non dimentichiamo che emozioni come tristezza e rabbia sono in realtà utili, non vanno per forza sempre demonizzate come qualcosa di spiacevole e sbagliato. La regola fondamentale è imparare a gestirle nella maniera più adeguata; ricordiamoci che, essendo innate e presenti in ciascuno di noi, sono “nate” per aiutarci a superare gli ostacoli della vita.  Senza emozioni saremmo solo dei robot!

A completamento delle emozioni, ci sono anche i pensieri. Spesso, sono proprio questi ultimi a condurci a sperimentare reazioni esageratamente negative in rapporto a particolari eventi. Ma perché questo accade? Perché i pensieri che invadono le nostre menti sono esagerati, pessimistici, catastrofici; non descrivono in maniera veritiera la realtà, distorcendola e spesso generalizzando; non sono utili a perseguire i nostri scopi; infine, conducono a reazioni emotive troppo intense (i famosi livelli alti del termometro). Per essere di aiuto ai nostri bambini e ragazzi, il consiglio che possiamo dare è quello di ridimensionare questi pensieri maladattivi, sostituendoli con pensieri razionali, cioè positivi. Insegnate ai vostri figli a pensare in positivo!

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

BIBLIOGRAFIA

Di Pietro Mario (2014). “L’ABC delle mie emozioni”. Trento, Erickson

Il gioco in scatola: un valido alleato nel potenziamento delle funzioni esecutive e degli apprendimenti

Il gioco in scatola: un valido alleato nel potenziamento delle funzioni esecutive e degli apprendimenti

La parola gioco, per definizione, indica “qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti a scopo di svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali ed intellettive”.  

Nel mio lavoro quotidiano con bambini e ragazzi, il gioco è il mio valido alleato non solo per costruire relazioni positive con loro ma anche, e soprattutto, come strumento di potenziamento degli apprendimenti e delle funzioni esecutive al fine di portarli ad allenare diverse competenze sperimentandosi con divertimento e gratificazione. 

Quali sono queste competenze?

  • Competenze cognitive

Attraverso le varie tipologie di gioco è possibile allenare la capacità di problem solving, la capacità di astrazione, le competenze logico-matematiche, la memoria di lavoro, il pensiero tattico-strategico sviluppando nei ragazzi le capacità di pianificazione e valutazione del rischio.

 

  • Competenze sociali e relazionali

Il gioco essendo, di base, un’attività sociale, predispone i ragazzi al lavoro in gruppo e all’interazione promuovendo in loro lo spirito di cooperazione e condivisione. L’attività del giocare assieme, anche in competizione, aiuta la socializzazione in quanto giocare in gruppo risulta essere più divertente rispetto al giocare da soli; in particolare, con i giochi collaborativi è possibile stimolare i ragazzi a mettersi insieme per il raggiungimento di uno scopo comune; infine attraverso il gioco si impara a vincere ma anche a perdere e soprattutto a gestire queste situazioni in un contesto di gruppo.

 

  • Competenze emotive e metacognitive

Grazie al gioco il bambino può imparare a gestire le proprie emozioni e la loro intensità; nei momenti di gioco si possono alternare infatti momenti di gioia ed euforia, a momenti di rabbia o frustrazione. Dinnanzi a qualsiasi emozione risulta utile accompagnarlo e accoglierlo, dando una valenza positiva a quanto prova e, attraverso la metacognizione, ovvero la capacità di conoscere se stesso, le proprie modalità di funzionamento, incoraggiarlo a trovare soluzioni e aiutarlo a tollerare meglio le emozioni più intense.

 

  • Competenze etiche 

Durante la situazione di gioco è possibile apprendere l’importanza del rispetto e della condivisione delle regole a cui tutti i giocatori devono sottostare in modo uguale. Questo aspetto, unitamente al sapere individuare una tecnica per raggiungere i propri obiettivi all’interno di un sistema di regole noto e condiviso, ha un forte valore educativo. 

Ma perché il gioco è così importante? Se chiediamo ai bambini qual è l’obiettivo di un gioco, loro prontamente rispondono: “vincere!!”. Già da questa risposta è possibile avviare con loro interessanti riflessioni, portandoli a ragionare sull’idea che per vincere, c’è bisogno di modificare i propri comportamenti per raggiungere lo scopo!        

A questo punto, vi starete chiedendo, quali sono i giochi migliori che si possono utilizzare anche a casa o a scuola per potenziare le funzioni esecutive e le abilità dei nostri bambini? Dobble, Halli Galli, Fantascatti, Uno, SpeedColors …. Sono tanti, di varia tipologia e risulterebbe troppo riduttivi elencarli in questo articolo. 

Ed è per questo che a brevissimo, nei nostri canali social verrà avviata la rubrica “Allenamente”, un appuntamento settimanale in cui attraverso un breve video vi faremo assaggiare alcuni estratti di giochi, portandovi a scoprire tutte le loro potenzialità. 

Al prossimo articolo!

Dott.ssa Benedetta Levorato

Psicologa dell’età evolutiva

Che cos’è l’autostima?

Che cos'è l'autostima?

L’autostima è definibile come il senso soggettivo di valore e apprezzamento che una persona ha di sé stessa. Essa si basa sulla autopercezione dell’individuo per quanto concerne diversi aspetti (da quello fisico, alle capacità sociali e professionali, etc.). Talvolta rivela inoltre un carattere mutevole, che deriva dal succedersi delle esperienze dell’individuo, oltre che dai feedback che questi riceve dall’ambiente.

Essa si rivela importante per il benessere psico-sociale della persona, ne sostiene la motivazione e una prospettiva di tipo positivo riguardante il futuro. È importante che l’autostima sia equilibrata; infatti, in caso di autostima bassa o eccessivamente alta, possono emergere problemi come alterazioni dell’umore e difficoltà interpersonali.

Come faccio a capire se ho una autostima adeguata?

Un buon livello di autostima si riflette in diversi elementi, tra questi un senso generale di fiducia in sé e nella propria autonomia, la consapevolezza dei propri limiti e potenzialità, accettazione dei feedback negativi in quanto opportunità per migliorare. 

Le persone con elevata autostima dimostrano un maggiore entusiasmo e perseveranza nel perseguire i propri obiettivi, anche di fronte agli insuccessi, e ridotti livelli di ansia. Quelle con bassa autostima, al contrario, possono mostrare arrendevolezza e sentimenti negativi come preoccupazione e pessimismo nell’affrontare nuove sfide e soprattutto nel confrontarsi con feedback negativi riguardanti le proprie performance.

Come migliorare l’autostima?

1- individuare e ridimensionare l’atteggiamento di autocritica accentuata

2- avere un’immagine di sé definita e consapevole, che non renda dipendenti dal giudizio degli altri

3- accettare i propri difetti e vedere la possibilità di migliorarsi

4- ritenersi meritevoli di, e quindi concedersi, momenti piacevoli di relax e svago

 

La psicoterapia può aiutare a sostenere l’autostima, riducendo i correlati negativi di quest’ultima (sentimenti depressivi, ansiosi, scarsa assertività, difficoltà nelle relazioni, etc.).

Dott.ssa Diana Mabilia

BIBLIOGRAFIA

  • Orth, U., & Robins, R. W. (2014). The development of self-esteem. Current directions in psychological science23(5), 381-387.
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  • Buhrmester, M. D., Blanton, H., & Swann Jr, W. B. (2011). Implicit self-esteem: nature, measurement, and a new way forward. Journal of personality and social psychology100(2), 365.
  • Erol, R. Y., & Orth, U. (2011). Self-esteem development from age 14 to 30 years: a longitudinal study. Journal of personality and social psychology101(3), 607.
  • Brown, J. D. (2014). Self-esteem and self-evaluation: Feeling is believing. In Psychological Perspectives on the Self, Volume 4 (pp. 39-70). Psychology Press.
  • Mruk, C. J. (2013). Self-esteem and positive psychology: Research, theory, and practice. Springer Publishing Company.
Perché il mio bambino si comporta così?

Perché il mio bambino si comporta così?

Leggo ovunque la parola “capricci” e la sento da genitori/insegnanti/colleghi tipo una volta al giorno. 

Ma siamo proprio sicuri che i capricci siano veramente capricci? 

Non sono certa che sia così, mi dispiace. 

Forse invece di definire un bambino capriccioso, potremo provare a notare cosa scatena il suo comportamento. Perché fa così? È successo qualcosa? Sta male? In che luogo accade? Ha un fastidio sensoriale? Non si sente al sicuro? 

I bambini a volte sono molto leggibili, non stanno bene, ce lo fanno capire in tutti i modi. 

Siamo noi adulti che non sappiamo leggere certi disagi, forse perché poco attenti, poco presenti, molto stanchi. 

Pensate la stessa cosa di voi: ci sono giorni in cui state male e cosa fate? Vi lamentate, siete “fastidiosi”.. e con chi? Con chi amate di più. 

Lo stesso i bambini. 

La vera chiave è cambiare lo sguardo su questi segnali, cambiare pensiero, perché ve lo assicuro che i bambini non lo fanno apposta a farvi arrabbiare, vi stanno dicendo chiaramente che qualcosa non va. Non si sentono al sicuro, non si sentono capiti, non riescono ad autoregolare le proprie emozioni.

Come poter cambiare sguardo e capire perché il vostro bambino fa cosi?

Innanzitutto, diventando degli acuti osservatori, notare se ci sono stati cambiamenti, se qualche episodio possa averlo reso più nervoso, magari annotando anche su un diario quando iniziano questi comportamenti e quale sia il fattore scatenante. Possono essere causati dalle più diverse motivazioni: sensoriali, emotive, familiari, scolastiche, relazionali, motorie. 

Oltre che diventare acuti osservatori, a volte c’è la necessità di diventare acuti ascoltatori, perché spesso nelle parole dei bambini c’è la soluzione, troviamo la motivazione reale del loro malessere, ci danno la loro versione dei fatti. Ascoltarli attivamente, senza giudizio, senza interromperli, senza anticiparli. 

Altra cosa da fare è cambiare, cambiare il vostro approccio educativo, cambiare la routine, cambiare vestiti, cambiare regole, cambiare cibo (nei casi di problematiche sensoriali tutto questo è fondamentale). 

Infine, se notate che questi comportamenti persistono, chiedete aiuto. Questo non è mai sbagliato, ma anzi aiuterete il vostro bambino a crescere in armonia. 

Dott.ssa Laura Garrone: Pedagogista clinico, Psicomotricista Funzionale, Neuropedagogista e Terapista Dirfloortime

Quali sono i prerequisiti del linguaggio?

Quali sono i prerequisiti del linguaggio?

Cosa serve al tuo bimbo/a per riuscire a sviluppare il linguaggio?
Come riescono a capire cosa stiamo chiedendo loro?
Come gestiscono la parte della socializzazione attraverso la comunicazione?
Come imparano più lingue?
Come iniziano ad articolare dei suoni per poi creare delle parole?

“La comunicazione comincia nella prima infanzia, molto prima che il bambino sia capace di pronunciare le sue prime parole” (Bortolini e Basso, 2017)

L’acquisizione del linguaggio è un processo che parte da lontano, un percorso che prevede lo sviluppo di piccole abilità non verbali ma comunicative che il bambino sviluppa nel corso del primo anno di vita. Tali abilità sono definite con il termine “prerequisiti” e attraverso la loro stimolazione il linguaggio comincia a fiorire.

Per un genitore, conoscere, osservare e stimolare tali competenze è di fondamentale importanza per favorire lo sviluppo del linguaggio del proprio bimbo/a o per riconoscere eventualmente un ritardo nella sua acquisizione. 

Vediamo nello specifico quali sono i prerequisiti comunicativi più importanti:

  • Contatto oculare: Intorno ai 3 mesi di vita il bambino sviluppa la capacità di agganciare lo sguardo e di mantenere il contatto visivo durante l’interazione. Tale abilità, favorisce la comprensione delle espressioni facciali e l’osservazione dei movimenti della bocca utili poi, successivamente, per l’articolazione delle parole;
  • Intenzionalità comunicativa: presente nei primi mesi di vita, ma si stabilizza intorno ai 9-10 mesi.  Rappresenta il desiderio di voler comunicare, inizialmente con i gesti e poi con le parole. 
  • Attenzione congiunta compare intorno ai 10 mesi e indica la capacità del bambino di condividere, attraverso gesti e sguardi, l’attenzione su un oggetto esterno con il proprio interlocutore (mamma-oggetto- bambino)
  • Alternanza del turno: la comunicazione perché sia efficace, si compone di più turni: “ora tocca a te e io ascolto, ora tocca a me e tu ascolti”. Tale abilità è già presente intorno ai 3 mesi di vita durante le “protoconversazioni” con il genitore (es. scambio alternato di vocalizzi);
  • Uso di gesti comunicativo: l’uso dei gesti serve al bambino per comunicare prima che sappia utilizzare le parole; difatti viene definita “comunicazione prelinguistica”. Attraverso questi elementi il bambino “chiede” e “racconta”;
  • Gesto dell’indicare (pointing): compare verso gli 8-9 mesi, inizialmente ha scopo richiestiivo, successivamente viene usato per mostrare, condividere un oggetto, catturando l’attenzione dell’interlocutore; 
  • Imitazione: capacità alla base dello sviluppo del linguaggio. Il bambino impara a imitare le espressioni facciali e i movimenti delle labbra di chi gli parla;
  • Gioco simbolico: il gioco del “saper far finta”, compare verso i 12-18 mesi. È di fondamentale importanza per favorire lo sviluppo del linguaggio e permette di fare esperienza. Il bambino impara a dare un significato simbolico ad un oggetto e interpreta a suo piacimento, una storia. Ripete gesti e azioni conosciuti “prende in mano un cucchiaio e per finta mangia, chiude gli occhi e per finta dorme…”, trasforma gli oggetti facendoli diventare ciò che gli serve per il suo gioco. 

Dott.ssa Gabriella Lurino

Logopedista

PSICOSOMATICA: una parola difficile per indicare un legame ancestrale

PSICOSOMATICA: una parola difficile per indicare un legame ancestrale

Bentornato, con questo articolo vorrei portarti dentro un ambito che a me piace molto e che rappresenta un vero ponte di comunicazione, tra professionisti, tra sistemi e soprattutto dentro di noi!

Cosa sono i disturbi da somatizzazione?

Per rispondere a questa domanda, è necessario fare una piccola premessa: come hai capito leggendo gli articoli precedenti, lo psicologo si occupa non solo di patologia ma anche di benessere e promozione alla salute, grazie anche alla presenza di altre figure sanitarie che lavorano in sinergia con questa professione come, per esempio, l’osteopata ma anche il fisioterapista, il medico o il pediatra e via dicendo…

Questo ci porta a dover ora definire il concetto di salute e malattia: se fino a poco tempo fa era ben radicata in tutti noi la cultura del corpo separato dalla mente e quindi delle malattie biologiche corporee, mediche, e di quelle più sfumate della mente, psicologiche o psichiatriche; gli ultimi anni e le scoperte delle ricerche scientifiche, attraverso le nuove ipotesi teoriche hanno spinto sempre di più tutti i sanitari a prendere in considerazione una visione unificata della persona.

Per tali ragioni i concetti di salute e malattia diventano così riconducibili a diverse linee di forza: biologiche, psicologiche e sociali. La persona quindi interagisce, con i propri sistemi (corpo e mente), con l’ambiente e il contesto che la circonda in un continuo processo di scambio di informazioni. Questo collegamento non solo esiste ma a volte va in cortocircuito. È così che se di fronte ad uno stimolo stressante breve l’organismo utilizza le proprie capacità difensive fisiche, modulate dai fattori psichici, per poter rispondere nella maniera più adeguata allo stressor (ovvero lo stimolo), di fronte a richieste costanti e intense come periodi prolungati di stress, il corpo esaurisce tutte le proprie risorse. 

Questo è il caso che ci porta a rispondere alla domanda iniziale, cosa sono i disturbi da somatizzazione?

Per dirla in parole semplici, queste malattie sono un modo in cui la mente sofferente e non ascoltata inizia a gridare. Essi, infatti, si originano proprio attraverso l’interazione di diversi sistemi, tra cui il sistema endocrino (ormonale), il sistema immunitario e quello nervoso. I sintomi psicosomatici, come già sottolineato, forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.

I disturbi da somatizzazione possono essere considerati vere e proprie malattie che comportano danni a livello organico e che sono causati e aggravati da fattori emozionali, come ad esempio sentimenti legati all’ansia, alla depressione, ma anche a sentimenti di competizione e ostilità. Spesso chi ne soffre viene giudicato come malato immaginario, non viene creduto o addirittura gli si attribuisce uno scopo di vantaggio.

In realtà le ricerche ci dicono che, i tassi di prevalenza di questa categoria di disturbi riportano una presenza all’interno della popolazione generale che va dal 15 al 30%.

Esempi di sintomi e disturbi psicosomatici possono essere:

  • Sistema cardiovascolare: palpitazioni, aritmie, disturbi vasomotori, ipertensione essenziale.
  • Sistema respiratorio: asma bronchiale, tosse e dispnea
  • Apparato gastroenterico: gastrite, ulcera, turbe intestinali, sindrome del colon irritabile, morbo di Crohn.
  • Cute: dermatiti, alopecia, iperidrosi
  • Sistema endocrino: iper o ipotiroidismo, morbo di Addison, ecc.
  • Sistema immunitario: alterazione dei meccanismi di risposta anticorpale.

Ora che avrai capito di cosa stiamo parlando, immagino che ti chiederai come si curano i disturbi da somatizzazione?

Bene, il trattamento psicosomatico consiste nell’integrare interventi di tipo psicologico con interventi psicofarmacologici e medici convenzionali. La persona viene presa in carico nella sua complessità a 360°, ciascun sintomo viene analizzato in modo funzionale e collegato al funzionamento psicologico della persona che in tal modo diventa parte attiva del trattamento, risvegliando le proprie risorse e le proprie energie. È un trattamento utile soprattutto quando c’è poca motivazione o non si riesce a cambiare il proprio stile di vita, il quale influenza in modo diretto il proprio stato di salute. 

Se ti sei riconosciuto in questa descrizione non aspettare oltre, puoi rivolgerti ad un professionista che ti aiuterà a prenderti cura del tuo benessere.

Dott.ssa Griguoli Veronica, 

psicologa 

Scopriamo L’ALBO ILLUSTRATO

Scopriamo l'ALBO ILLUSTRATO

Eccomi qui con un nuovo articolo che parlerà di… ALBI ILLUSTRATI!

Sapete tutti di cosa si tratta? Andiamo a vederlo insieme.

Un albo illustrato è un libro composto da molte figure e poche parole. Sono proprio le immagini ad essere protagoniste. Esse, infatti, assumono diverse funzioni, le quali andremo a vedere più avanti. Gli albi illustrati non sono solo per un pubblico di bambini come si potrebbe pensare, bensì possono essere letti anche da un pubblico adulto, proprio come voi.

Ogni albo illustrato che possiamo sfogliare tra le nostre mani rappresenta, secondo il mio punto di vista, un’opera d’arte. Essi mettono in luce sentimenti ed emozioni che portano il lettore all’interno di qualcosa di magico e allo stesso tempo complesso che permette un viaggio emozionale e a volte stravagante.

Ma andiamo a scoprire come è fatto!

Ogni albo illustrato ha:

  • La copertina e non una copertina: perché dico così? La copertina rappresenta un elemento essenziale del libro che ci permette di scoprire subito di cosa si parla all’interno del testo dandoci non troppe informazioni. Molto spesso possiamo trovare su di essa o un’illustrazione presente anche all’interno del libro oppure, altre volte, qualcosa che non emergerà sfogliando le pagine;
  • Il risguardo: il risguardo dell’albo lo possiamo definire come uno spazio limbo tra la copertina e l’inizio del racconto che ci permette una certa libertà e una certa immaginazione di quello che avverrà nella storia. È definibile come uno spazio di serenità che in modo silenzioso e paziente inizia a trasportare il lettore in un mondo incantato.

Sussegue poi il racconto. Le pagine che raccontano la storia sono ricche di illustrazioni e con poche parole stampate; questo permette al lettore di entrare all’interno della storia interpretando e “studiando” le immagini presenti, le quali assumono principalmente due funzioni:

  1. Possono accompagnare il testo scritto senza informazioni aggiuntive;
  2. Possono arricchire il testo aggiungendo nozioni utili ed essenziali alla comprensione del racconto. Senza di esse, in questo caso, non potremmo assimilare tutti gli aspetti che l’albo vuole passare noi.

È proprio questa ultima funzione che rende l’albo illustrato una vera e propria opera d’arte.

Infine, troviamo:

  • La quarta di copertina: essa è la compagna della copertina. Nella quarta di copertina possiamo trovare o la continuazione dell’illustrazione presente nella copertina oppure una breve trama del racconto.

Fin qui tutto chiaro vero? 

Ma a cosa serve un albo illustrato?

Gli utilizzi degli albi sono molteplici. Abbiamo detto che possono essere utilizzati con qualsiasi età, dai più piccoli, agli adolescenti, fino ad arrivare agli adulti. A quale scopo? 

Per i più piccolini gli albi illustrati possono essere degli ottimi strumenti per favorire l’ascolto, per ampliare il lessico, per sviluppare una maggiore attenzione e perché no, per proporre un nuovo tema di lavoro. Quest’ultimo utilizzo è possibile anche con i ragazzi più grandi, magari per introdurre un argomento o per affrontare anche temi più delicati. Per concludere, “gli albi illustrati di qualità, se ben mediati da una figura adulta, possono sviluppare competenze artistiche, immaginative e letterarie, oltre a portare a una riflessione profonda su temi complessi e a stimolare il pensiero critico ed etico.” (Storie migranti: l’albo illustrato per un nuovo immaginario interculturale)

Spero di aver spiegato al meglio cosa essi siano e il motivo per cui ho iniziato a lavorare quotidianamente con questi strumenti. Seguirà presto la rubrica “alboamico” che ci porterà alla scoperta di alcuni albi illustrati.

 A presto!

Dott.ssa Giorgia Ghiraldini

Educatrice socio-pedagogica

Bibliografia:

  • Storie migranti: l’albo illustrato per un nuovo immaginario interculturale, Dalila Forni, Università di Firenze, Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education 14, 3 (2019)

I disturbi del comportamento

I disturbi del comportamento

I disturbi del comportamento sono un insieme di difficoltà che comprendono una serie di condotte definite “esternalizzanti”, in quanto includono comportamenti in cui il disagio interno viene rivolto verso l’esterno attraverso condotte disfunzionali come l’aggressività, l’impulsività, la sfida, la violazione delle regole e altre condotte considerate socialmente inappropriate.

In età prescolare e scolare, gli eccessi comportamentali possono verificarsi in modo isolato e temporaneo, quando ad esempio sono legati ad aspetti situazionali o alla particolare fase di sviluppo in cui si trova il bambino, oppure possono rappresentare dei veri e propri campanelli d’allarme per l’insorgenza di futuri disturbi del comportamento.

Nei disturbi del comportamento, c’è una difficoltà nell’autoregolazione emotiva e comportamentale, c’è una compromissione del funzionamento familiare, sociale e scolastico.

I bambini con disturbi del comportamento mostrano dei deficit nel processo decisionale relativo alla scelta di una linea d’azione tra le diverse alternative, hanno difficoltà ad autocontrollarsi. E’ IMPORTANTE precisare che questi bambini non compiono certi atti intenzionalmente, non sono capaci di autoregolarsi, non riescono ad interpretare le emozioni altrui, non sono in grado di comprendere i segnali che predicono l’errore ed hanno una certa difficoltà a controllare le proprie azioni e reazioni.

Nel DSM-5, che è il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (APA, 2013), si parla dei cosiddetti “Disturbi del comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta” per riferirsi ad una famiglia di disturbi in cui sono prevalenti le componenti comportamentali dell’aggressività e della violazione delle norme.

In particolare, si fa riferimento a:

  • Disturbo della condotta
  • Disturbo oppositivo-provocatorio
  • Disturbo esplosivo intermittente

 

Tra i “Disturbi del Neurosviluppo” troviamo invece l’ADHD o DDAI, ovvero il Disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Nei prossimi articoli descriveremo in dettaglio i singoli disturbi.

Quali sono i fattori di rischio dei disturbi del comportamento?

Le origini dei disturbi del comportamento possono essere di diversa natura. Sono molti, infatti, i fattori di rischio che concorrono a definire un problema di regolazione comportamentale (e.g., Brett et al., 2015; Carliner et al., 2017; Fearon&Bleksy, 2011; Hoge et al., 2008; Roskam, 2018; van Nieuwenhuijzen et al., 2017). Tra questi, vi sono:

  • Fattori biologici e autonomici (come bassi livelli di serotonina, alti livelli di cortisolo e bassa frequenza cardiaca a riposo)
  • Deficit neurocognitivi (come deficit nelle funzioni esecutive)
  • Difficoltà di processamento delle informazioni sociali
  • Vulnerabilità temperamentali (ridotta regolazione emotiva, impulsività)
  • Fattori di rischio legati alla fase prenatale (esposizione a tossine durante la gravidanza) e perinatale (scarsa qualità delle cure subito dopo il parto)
  • Stile educativo genitoriale coercitivo
  • Stile di attaccamento insicuro o disorganizzato tra bambino e adulto di riferimento
  • Conflitti all’interno del contesto familiare
  • Esposizione ad atti violenti, maltrattamenti o situazioni di abuso

Come appare evidente da quanto emerge dalla letteratura scientifica, alcune difficoltà nella regolazione del comportamento possono essere osservate già durante l’età prescolare. Questo è un aspetto molto importante in quanto può permettere al genitore, o agli altri adulti che si prendono cura del minore, di attivare interventi tempestivi. Ogni intervento viene pianificato diversamente a seconda del disturbo presentato e in base alle caratteristiche specifiche del bambino e del contesto in cui vive. Il trattamento dei disturbi comportamentali vede nella valutazione psicologica il suo primo passo, seguita da un intervento centrato sull’attivazione delle risorse e dei fattori protettivi del bambino a diversi livelli: personale, familiare, amicale e scolastico.

Cosa si può fare?

I trattamenti sono di solito multimodali e variano a seconda del disturbo specifico e dei fattori che hanno contribuito allo sviluppo e al mantenimento della sintomatologia.

PARENT TRAINING: è un intervento che ha lo scopo di coinvolgere i genitori nel processo educativo, riabilitativo e psicoterapeutico, attraverso l’insegnamento di abilità necessarie per contrastare situazioni familiari problematiche e l’acquisizione di un atteggiamento –

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE IN ETA’ EVOLUTIVA: i bambini vengono guidati nello sviluppo di strategie di regolazione cognitiva, emotiva e comportamentale attraverso interventi specifici quali:

-training di abilità sociali: il bambino apprende abilità sociali di base utili a comunicare in modo più funzionale i bisogni, gli stati d’animo e a sviluppare un migliore rapporto con adulti e pari;

-training di gestione della rabbia: il bambino impara a riconoscere i primi segnali di frustrazione o disagio e viene guidato ad utilizzare una serie di abilità di coping utili a disinnescare la rabbia e i comportamenti aggressivi. Vengono inoltre insegnate tecniche di rilassamento e abilità di gestione dello stress.

-training sull’autostima: molti bambini con problematiche comportamentali sperimentano ripetuti fallimenti nell’ambito scolastico e/o personale. È importante quindi lavorare sull’individuazione e il potenziamento delle risorse personali in modo da costruire basi solide per lo sviluppo di una sana autostima.

PRESA IN CARICO DI PROBLEMATICHE ASSOCIATE: la presenza di eventuali disturbi dell’apprendimento (DSA) o altre problematiche di tipo emotivo, educativo e psicologico, può contribuire al mantenimento del problema e richiede, quindi, un supporto di tipo professionale specifico.

INTERVENTO FARMACOLOGICO: può essere utile a controllare i comportamenti particolarmente impulsivi.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale

Bibliografia

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