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E ORA RILASSIAMOCI…INTRODUCIAMO IL RESPIRO PROFONDO

E ORA RILASSIAMOCI…INTRODUCIAMO IL RESPIRO PROFONDO

Rimaniamo concentrati sulle nostre emozioni… Quando non sappiamo come gestirle adeguatamente, specialmente quando tratteniamo dentro di noi troppa rabbia, senso di colpa, tristezza e tutte le altre sensazioni spiacevoli, rischiamo che il nostro corpo scoppi all’improvviso! 

Con i bambini spesso cerchiamo delle metafore che ci aiutano a farli entrare in contatto con il funzionamento del loro corpo… Recentemente abbiamo sfruttato la molla, la quale una volta tirata troppo in tensione rischia di scapparci via di mano! Ecco, anche il nostro corpo potrebbe “saltare” via proprio come una molla ed una delle reazioni più tipiche in età evolutiva è il tic. Ma che cos’è? Si tratta di una manifestazione psicosomatica, un segnale di allarme, che il corpo sta inviando all’esterno per chiedere aiuto… E se lo notiamo nei nostri figli cosa possiamo fare per aiutarli?

Sicuramente possiamo guidarli al rilassamento che permette di scaricare parte delle tensioni ed essere poi più predisposti al dialogo e alla ricerca di una soluzione alternativa e maggiormente funzionale al problema. Usare degli esercizi di respirazione può aumentare la capacità di autocontrollo nei nostri bimbi.

Scopriamo insieme come funziona il respiro profondo:

“Mettetevi in una posizione comoda. Mettete una mano sul vostro stomaco e un’altra sul vostro torace. Inspirate lentamente e guardate quale delle vostre due mani si muove. I respiri poco profondi fanno muovere la mano sul torace, i respiri profondi fanno muovere la mano sullo stomaco. Adesso, lentamente, ispirate dal vostro naso. Mentre voi inspirate, contate lentamente fino a 3 e sentite il vostro stomaco che si espande sotto la vostra mano. Trattenente il respiro per 1 secondo e quindi lentamente espirate mentre di nuovo contate fino a 3. Mentre voi inspirate, pensate alla parola “inspira”. Quando espirate, pensate alla parola “rilassati”.

Inspira 1…2…3

Trattieni 1…

Rilassati 1…2…3

Continuate l’esercizio di respiro profondo per alcuni minuti, cercando di sentirvi sempre più rilassati ogni volta che espirate.” 

La respirazione, per essere profonda, deve coinvolgere il diaframma… Ma come fare? Respirando con la pancia, gonfiandola e sgonfiandola quasi fosse un palloncino, per ritornare alle nostre amate metafore. Con alcuni bambini, in sede di terapia, si utilizzano anche dei materassini per farli stendere a terra ed essere comodi per poi, con l’aiuto di una barchetta di carta, farla “navigare” nel mare (la pancia) per far capire loro il movimento ondulatorio che devono assumere. 

Ora possedete anche voi tutte le istruzioni per provarci a casa!

Dott.ssa Chiara Zaghini 

Psicologa dell’Età Evolutiva

BIBLIOGRAFIA: 

Di Pietro Mario (2014). “L’ABC delle mie emozioni”. Trento, Erickson.

Lochman et al. (2022). “Coping Power – Programma per il controllo di rabbia e aggressività in bambini e adolescenti”. Trento, Erickson.

Regole: come renderle efficaci per favorire lo sviluppo dei bambini

Regole: come renderle efficaci per favorire lo sviluppo dei bambini

Spesso in consulenza i genitori riportano la fatica nel guidare i propri figli in quella che è l’accettazione delle regole e dei no, portandoli spesso ad attuare una funzione genitoriale in alcuni casi eccessivamente normativa e rigida, in altri casi eccessivamente accomodante. Quindi eccomi oggi con qualche strategia per aiutarvi a porre dei confini positivi per una crescita armoniosa dei vostri bambini.

Crepet afferma che: “Le regole e i ‘no’ sono come dei paracarri ai lati di una strada; sono punti di riferimento, non debbono cambiare di posizione, non possono decidere di esserci o non esserci.”

Dunque, le regole sono fondamentali, ma per essere efficaci deve esser e chiarito ai nostri bambini il significato di esse. “Perché devo stare attento quando attraverso la strada?”, “Perché dobbiamo mangiare tutti insieme?”; Quando il bambino chiede il perché della regola, sta cercando il senso delle norme ed in questo, voi adulti di riferimento, avete l’occasione di trasmettere loro il valore della vita, del rispetto, dell’amore per la famiglia e per gli altri.

Il genitore nel suo ruolo educativo deve quindi mantenere la giusta distanza in un equilibrio tra il dover rispondere al bisogno di sicurezza, comprensione e accudimento del bambino, e l’altrettanto bisogno di limiti e confini ben definiti. È questo che permette ai bambini di imparare a “regolare” i propri stati emotivi.

Ecco quindi alcuni semplici e pratici consigli per iniziare ad approcciarci ad una comunicazione efficace della regola:

  • Guarda il tuo bambino negli occhi, abassandoti alla sua altezza
  • Parla al tuo bambino con voce ferma e autorevole; se sta facendo altro è normale che non vi ascolti perciò assicuratevi che vi sti ascoltando.
  • Le regole devono essere chiare, ferme, sintetiche. Vanno quindi evitate le frasi troppo generiche perché risulterebbero poco comprensibili per il bambino. 

Pensiamo ad esempio a quante volte gli diciamo: “Devi fare il bravo”; per aiutarlo a comprendere il senso dobbiamo spiegargli cosa significa, cosa vogliamo che faccia e cosa ci aspettiamo da lui. 

  • Le regole devono essere concrete per cui un bambino farà fatica a comprendere la frase “Devi riordinare” mentre sarà per lui molto più chiara la regola “Metti i tuoi giochi dentro alla scatola”.
  • Prediligi una comunicazione al positivo, evitando il “non”. Sostituisci ad esempio il “non urlare” ad un “parla piano”.

So che con i bambini non è sempre semplice, soprattutto se consideriamo che i genitori non sono “solo” genitori e che nella vita di tutti i giorni la frustrazione può essere tanta, però ci tengo a farti riflettere sull’importanza di iniziare ad approcciarsi ai nostri bambini si con fermezza, a patto che questa sia un’amorevole fermezza.

Dott.ssa Benedetta Levorato

Psicologa

IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

Il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività (definito anche DDAI in italiano o anche ADHD in inglese, da Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è uno dei più comuni disturbi neurocomportamentali.

Si manifesta, nella prima infanzia, principalmente con due classi di sintomi: un evidente livello di disattenzione ed una serie di comportamenti che denotano iperattività ed impulsività. Questo disturbo è considerato ora una condizione eterogenea potenzialmente cronica, che presenta sintomi rilevanti e problematiche associate che vanno a colpire diversi aspetti funzionali della vita di tutti i giorni.

Quali sono le cause dell’ADHD?

Le cause dell’ADHD possono essere di natura:   

  • Genetica
  • Neurobiologica
  • Ambientale

Studi di genetica che hanno coinvolti i bambini hanno mostrato l’esistenza di un’associazione tra l’ADHD e alcuni geni. Ad esempio, un’alterazione nel gene responsabile della produzione di un neurotrasmettitore (dopamina) potrebbe essere una delle cause di questo disturbo: la dopamina è quella sostanza che veicola le informazioni fra i neuroni e, quindi, è alla base di molti processi cognitivi, come ad esempio attenzione e memoria.

Nonostante non vi siano ancora evidenze scientifiche consistenti, la maggior parte dei farmaci utilizzati per curare l’ADHD, infatti, aumenta l’efficacia dell’attività della dopamina nella comunicazione tra neuroni, aiutando così la persona a prestare maggiore attenzione.

Ulteriori studi hanno dimostrato anche la familiarità del disturbo: un bambino affetto da ADHD ha 4 volte più probabilità di avere un parente con la stessa malattia; così come un terzo dei padri che soffrono di ADHD ha un figlio con lo stesso disturbo.

Esistono poi alcuni fattori ambientali che sono associati all’ADHD, in particolare fattori di rischio prenatali, come:

  • esposizione prolungata a fumo di sigaretta;
  • assunzione di alcool o droga in gravidanza;
  • ipertensione;
  • stress;
  • complicanze durante il parto;
  • basso peso neonatale o la nascita prematura;
  • basso peso alla nascita.

Tali fattori non causano in maniera diretta questo disturbo ma possono favorire la comparsa di alterazioni nei geni, che portano poi all’insorgenza dell’ADHD.

Le cause di natura neurobiologica che possono causare la comparsa dell’ADHD sono difetti nella struttura e nel funzionamento della parte frontale del cervello, responsabile di processi cognitivi primari come la pianificazione e l’organizzazione dei comportamenti, l’attenzione e il controllo inibitorio. I deficit strutturali possono poi interessare anche la regione cerebrale che regola le emozioni (limbo) e una parte del sistema nervoso che regola la comunicazione all’interno del cervello (gangli). Tutte queste regioni cerebrali sono interconnesse tra di loro e, quindi, un deficit anche in una sola di esse potrebbe originare il disturbo.

Sintomi del “ADHD” disturbo da deficit di attenzione ed Iperattività

I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in bambini che, rispetto ai propri coetanei, presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato.

Solitamente questi soggetti non riescono a seguire le istruzioni fornite, sono disorganizzati e sbadati nello svolgimento delle loro attività, hanno difficoltà nel mantenere la concentrazione, si fanno distrarre molto facilmente dai compagni o da rumori occasionali e raramente riescono a completare un compito in modo ordinato.

Quando sono in classe sembrano disorientati e, spesso, passano da un’attività all’altra senza averne completata alcuna, si guardano continuamente attorno, soprattutto durante lo svolgimento di compiti, ma anche durante la proiezione della trasmissione tv preferita. Ciò accade soprattutto nei momenti in cui tali attività risultano noiose e ripetitive.

bambini con iperattività – impulsività giocano in modo rumoroso, parlano eccessivamente con scarso controllo dell’intensità della voce, interrompono persone che conversano o che stanno svolgendo delle attività, senza essere in grado di aspettare il momento opportuno per intervenire; i genitori e gli insegnanti li descrivono sempre in movimento e sul punto di partire, incapaci di attendere una scadenza o il proprio turno.

Inoltre, sembrano non sufficientemente orientati al compito e faticano a pianificare l’esecuzione delle attività che vengono loro assegnate.

Le manifestazioni di iperattività e impulsività sembrano essere attribuibili ad una difficoltà di inibizione dei comportamenti inappropriati. I bambini con disturbo dell’attenzione esprimono questa difficoltà con agitazione, difficoltà a rimanere fermi, seduti o composti quando viene loro richiesto.

I soggetti affetti da DDAI presentano delle difficoltà nei seguenti campi relativi all’attenzione e alle funzioni neuropsicologiche: risoluzione dei problemi, abilità di pianificazione, grado di allerta e di attenzione, flessibilità cognitiva, attenzione mantenuta, inibizione delle risposte automatiche, memoria di lavoro non verbale.

Come si manifesta in bambini e adolescenti?

La disattenzione e l’impulsività sono caratteristiche riscontrabili in un ampio range di disturbi psicopatologici in età evolutiva, come ad esempio nei disturbi d’ansia, nella depressione e nei disturbi del comportamento.  È normale per i bambini essere pieni di energia, impulsivi (agire senza considerare la conseguenza delle loro azioni) e disattenti. Le stesse difficoltà si possono riscontrare negli adulti, che sopraffatti dal lavoro, dagli impegni e dai problemi di vita quotidiana non riescono a mantenere attiva la consapevolezza di ciò che stanno facendo e di come lo stanno svolgendo. Tuttavia, per alcuni bambini e adolescenti, il livello di attività, le difficoltà nel controllare l’impulsività e l’attenzione sono talmente pervasivi da impedirgli di stare al passo con le richieste della società.

Bambini con ADHD manifestano una tale impulsività e attività da non riuscire a stare fermi, sono continuamente agitati, parlano quando dovrebbero ascoltare, interrompono i discorsi, non riescono a portare a termine un compito, sembrano non ascoltare quando gli si parla e perdono continuamente oggetti a causa della loro disattenzione.  Talvolta rischiano di farsi male a causa della loro impulsività, sono incapaci di stare seduti a lungo in classe e la loro disattenzione può essere causa di difficoltà di apprendimento. Sono labili dal punto di vista emotivo, difficilmente riescono ad autoregolare le loro emozioni. Una volta diventati adulti continuano ad avere problemi. Fanno fatica a mantenere un lavoro, compiono spesso incidenti stradali, durante le conversazioni stimolano irritazione negli altri a causa della loro difficoltà nell’aspettare il loro turno e la tendenza a parlare in momenti non appropriati. Con molta probabilità le vite di questi bambini, adolescenti e adulti saranno compromesse su più fronti, in ambito sociale, scolastico, cognitivo e familiare.

Come si manifesta a casa?

I bambini con ADHD presentano un gran numero di comportamenti che possono interferire con la vita familiare:

  • Spesso non ascoltano le istruzioni dei genitori e non gli obbediscono.
  • Sono disorganizzati.
  • Spesso dicono cose inopportune.
  • Spesso interrompono le conversazioni.
  • È difficile portarli a letto la sera.
  • Possono mettersi in pericolo a causa della loro distrazione o impulsività.
  • Hanno difficoltà a rimanere seduti a tavola durante i pasti.
  • Spesso bisogna richiamarli e assisterli per assicurarsi che portino a termine un compito.
  • Rifiutano di svolgere i compiti a casa o impiegano un tempo eccessivo per terminarli.
  • Possono manifestare una frustrazione intensa quando le loro richieste non vengono esaudite.

Il disturbo ha un forte impatto sui genitori, che sono costretti giorno dopo giorno ad affrontare le esigenze del loro bambino con ADHD e a monitorare i suoi comportamenti, questo può essere estenuante sia dal punto di vista fisico che psicologico. La frustrazione che molti genitori provano può portare a rabbia e senso di colpa verso se stessi, e irritazione verso il bambino.

Non solo i genitori, ma anche i fratelli dei bambini con ADHD devono affrontare una serie di sfide:

  • I loro bisogni spesso ricevono meno attenzione rispetto a quelli del bambino con ADHD.
  • Possono essere rimproverati in maniera più decisa quando sbagliano, ricevendo meno attenzione per i loro successi, perché dati per scontati.
  • Possono essere responsabilizzati nei confronti del fratello e accusati di non aver fatto il proprio dovere se questo si comporta male sotto la loro supervisione.

Al fine di affrontare le sfide quotidiane che un bambino con ADHD pone è necessario essere in grado di padroneggiare una combinazione di compassione e di coerenza. Vivere in una casa che fornisce al contempo amore, struttura e prevedibilità è la cosa migliore per un bambino o un adolescente che sta imparando a gestire il suo ADHD.

Come si manifesta a scuola?

L’ambiente scolastico può essere un luogo difficile per un bambino con ADHD, basta pensare alle richieste che pone: stare fermi, ascoltare in silenzio, seguire le istruzioni, rimanere concentrati e attenti. Tutte cose che riescono difficili ai bambini con questo disturbo.

Gli studenti con ADHD presentano le seguenti sfide per gli insegnanti:

 

  • hanno difficoltà a mantenere l’attenzione nei compiti richiesti;
  • non eseguono le istruzioni e non portano a termine gli incarichi;
  • difficoltà a organizzarsi nei compiti;
  • facilmente distraibili da stimoli estranei;
  • faticano a stare seduti;
  • si alzano spesso dal banco e vanno in giro per la stanza.
  • spesso dimenticano di annotare i compiti per casa, di farli o di portare quanto svolto a scuola;
  • spesso hanno difficoltà con le operazioni che richiedono passi ordinati, come ad esempio una divisione lunga;
  • rispondono alle domande senza porre sufficiente attenzione alla risposta;
  • hanno difficoltà a rispettare il turno;
  • interrompono gli altri durante le fasi di gioco e/o lavoro;
  • bassa autostima;
  • prese in giro da parte di altri compagni;
  • basse prestazioni scolastiche.

 

Nei prossimi articoli si parlerà di valutazione e del trattamento dell’ADHD e delle strategie di intervento efficaci per il bambino, genitori e scuola.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Bibliografia

  • DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali M. Biondi (Curatore) Cortina Raffaello, 2014.
  • I disturbi del comportamento in età evolutiva. Fattori di rischio, strumenti di assesment e strategie psicoterapeutiche di Pietro Muratori (Autore), Furio Lambruschi (Autore), Cristian Stenico (Illustratore), Annarita Milone (Prefazione).
  • L’intervento cognitivo-comportamentale per l’età evolutiva Strumenti di valutazione e tecniche per il trattamento Mario Di Pietro, Elena Bassi.
Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance, termine inglese che indica il raggiungimento di uno stato di equilibrio tra lavoro e vita privata, è una componente fondamentale per il benessere fisico e mentale dei lavoratori e contribuisce a scongiurare l’insorgere di un “burnout”. Quest’ultimo è importante in quanto comporta una riduzione della motivazione e della produttività, e può associarsi a problemi di salute come disturbi cardiocircolatori ma anche del sonno, irritabilità, difficoltà relazionali e di concentrazione. 

Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla possibilità di far convivere in maniera pacifica la sfera professionale e quella privata, ambiti di vita oggi sempre meno nettamente distinti, grazie ad esempio all’introduzione dello strumento dello smart working. Quest’ultimo infatti a volte può rappresentare anche un rischio per il corretto bilanciamento dei tempi lavorativi ed extralavorativi e far sì che, se svolto a casa, il lavoro possa addirittura aumentare e occupare porzioni sempre maggiori di vita domestica e privata.

Per cercare di ridurre questo rischio, in prima battuta, è necessaria una consapevolezza su ciò che comporta maggiore stress nella nostra vita e ciò che invece allevia le nostre giornate.

In tal senso, può essere utile focalizzarsi sulle cose che riteniamo davvero importanti per noi, giorno per giorno, quando dobbiamo scegliere ad esempio tra un aperitivo con gli amici e il fare gli straordinari per la consegna di un progetto importante. 

Altro aspetto fondamentale è lasciare andare un po’ il bisogno di controllo e lasciare fare agli altri quello che non è strettamente necessario che facciamo noi, sia in ambito privato che al lavoro, concedendoci quindi del tempo libero e ritmi più sereni per svolgere le nostre attività in modo da dedicare a queste ultime la nostra piena attenzione e il valore che meritano.

Ma quindi? suggerimenti e soluzioni?

Per preservare il proprio benessere psicofisico, senza rinunciare anche alla soddisfazione in ambito lavorativo:

  • non rinunciare alle relazioni sociali, con i colleghi e con le persone all’esterno dell’ambito lavorativo;
  • godersi la possibilità di rallentare ogni tanto, dedicandosi nel tempo libero anche ad attività riposanti;
  • gestione dei limiti personali, capendo quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi e fare in modo che gli altri rispettino tali confini;
  • parlare con i propri superiori al lavoro trasmettendo loro il concetto che meno ore non vuol dire per forza meno produttività e che quindi gli straordinari non sono sempre necessari;
  • concentrarsi sulle attività lavorative ma anche su quelle personali approcciandosi a queste ultime con attenzione e un atteggiamento fondamentalmente sereno.

Dott.ssa Diana Mabilia

Psicoterapeuta

Bibliografia

  • McCormack, N., & Cotter, C. (2013). Managing burnout in the workplace: A guide for information professionals. Elsevier.
  • McMann, P. E., Ellinger, A. D., Astakhova, M., & Halbesleben, J. R. (2017). Exploring different operationalizations of employee engagement and their relationships with workplace stress and burnout. Human Resource Development Quarterly, 28(2), 163-195.
  • Tang, X., & Li, X. (2021). Role stress, burnout, and workplace support among newly recruited social workers. Research on Social Work Practice, 31(5), 529-540.
  • Van Heugten, K. (2011). Social work under pressure: How to overcome stress, fatigue and burnout in the workplace. Jessica Kingsley Publishers.
Paura del conflitto? Ecco i 3 segreti per imparare a gestirli meglio.

Paura del conflitto? Ecco i 3 segreti per imparare a gestirli meglio.

Bentornato, su questo blog! Che piacere ritrovarti dopo un po’ di tempo… per chi non mi conoscesse io sono la dott.ssa Griguoli Veronica, sono una psicologa e all’interno di Studio Progetto Vita mi occupo di percorsi rivolti sia agli adulti sia a ragazzi.

Oggi voglio parlarti di paura del conflitto, ti è mai capitato di non riuscire a dire la tua solo per paura della discussione che ne sarebbe poi derivata? Della fatica che avresti fatto nel gestire quel dissapore? 

In psicologia, la parola conflitto indica uno scontro tra ciò che una persona desidera e una necessità interiore e interpersonale e ciò che impedisce la soddisfazione del bisogno, dell’esigenza o dell’obiettivo connessi a tale desiderio. In altre parole, il conflitto è una discordanza tra ciò che una persona desidera e ciò che ostacola o impedisce il raggiungimento del desiderio stesso

Il conflitto viene distinto in interiore (quello che la persona ha con sé stessa) e in interpersonale (che coinvolge almeno due persone). Quello interpersonale può essere definito, come una divergenza nella quale ciascuna delle persone coinvolte vuole imporre il proprio punto di vista senza fare concessioni all’altra.

Spesso quando incontro i pazienti, tra le richieste che mi fanno a volte c’è questa: “Dottoressa vorrei non litigare più con gli altri”, in questi casi, dopo un bel respiro, cerco di spiegare loro che i litigi sono inevitabili in qualsiasi contesto della vita quotidiana, motivo per cui non riusciremo a smettere di “litigare con gli altri” anche se, spesso, tendiamo ad evitare di entrare in conflitto con qualcuno. 

Di solito mettiamo in atto una tale condotta perché lo “scontro” spaventa e tendiamo ad evitarlo poiché ci porta a scoprire delle parti di noi che non ci piacciono, che teniamo nascoste, che potrebbero dare un’immagine di noi che si allontana dalla persona che vogliamo essere. Un conflitto fa soffrire, produce crisi e tensione e ci fa sentire in difficoltà.

Inoltre, è associato all’idea di perdere la relazione con l’altro, alla paura, appunto, di perdere l’altra persona; se il litigio non è vissuto come confronto, ma come rottura, allora sicuramente ci sarà la tendenza ad evitarlo.

Prova a pensare, cosa vorrebbe dire nella tua vita non entrare più in conflitto con nessuno? Davvero sei convinto sia tutto questo paradiso? 

Le persone che tendono a rifuggire dai conflitti possono subire il fenomeno del people-pleasing, ossia la tendenza a voler piacere agli altri a tutti i costi pur di ottenere la loro approvazione. Molto spesso sono stati bambini inibiti nell’espressione dei loro bisogni e sono diventati adulti compiacenti e servili, che hanno imparato a non dire quello che pensano per assicurarsi la vicinanza dell’altro.

Altre persone che vivono il litigio con estrema fragilità e sofferenza possono aver sviluppato questa chiusura emotiva come una risposta al trauma. Gli individui che hanno vissuto esperienze traumatiche nelle relazioni di attaccamento hanno visto recidere la loro fiducia di base e, con essa, la possibilità di confrontarsi serenamente con l’altro. Alcuni di loro possono provenire da sistemi familiari altamente conflittuali dove la litigata e l’esternalizzazione di una rabbia esplosiva sono state le modalità di comunicazione dominanti

Se il solo pensiero di litigare inizia a far battere forte il cuore e a far scendere le lacrime, è possibile che la disregolazione emotiva stia prendendo il sopravvento e ostacolando la tua possibilità di comunicare in modo efficace durante un conflitto. Emozioni intense come rabbia, frustrazione o tristezza possono diventare opprimenti e rendere difficile impegnarsi in modo costruttivo nella conversazione. La chiusura, in quest’ottica, può diventare un meccanismo di difesa utile a proteggersi da ulteriori stress emotivi.

Come si può allora pensare al conflitto in un’ottica più funzionale?

Il litigio non dovrebbe essere inteso necessariamente con accezione negativa, difatti, se adeguatamente gestito, esso può essere un’opportunità per migliorare le relazioni interpersonali.

Una buona gestione dei conflitti è determinante sia nella sfera privata, legata alla famiglia, all’amicizia e all’amore, sia nell’ambito lavorativo, teatro di numerosi scontri dovuti alla convivenza forzata tra persone che non si conoscono. Infatti, è importante vedere e viversi il conflitto, come espressione di visioni differenti, momenti di crescita individuale e come possibilità di migliorare le proprie relazioni.

Ecco allora i miei 3 consigli:

  • Analizzare e capire chi sono i protagonisti: chi siamo noi, chi sono le persone coinvolte e considerare la storia personale e gli aspetti situazionali che ognuno porta con sé durante la discussione.
  • fare chiarezza sugli obiettivi reciproci: A volte gli obiettivi che muovono le persone coinvolte sono differenti e così anche i punti di vista sono molteplici e l’allenamento a considerarli può aprire strade creative alla soluzione dei problemi.
  • Riuscire a tenere sotto controllo l’oggettività: l’argomento, del litigio e gli aspetti personali coinvolti aiuta la gestione del conflitto. Talvolta è utile rimanere fedeli al tema della discussione senza andare ad attaccare l’altra persona sul piano personale.

Dott.ssa Veronica Griguoli

Psicologa

MIO FIGLIO HA UN “BES”… MA CHE SIGNIFICA?!

Mio figlio ha un “BES”… Ma che significa?

Che strana sigla…scopriamo insieme cosa significa BES e perché spesso la ritroviamo “appiccicata” ai nostri ragazzi!

BES sta per “Bisogni Educativi Speciali” ed al suo interno tendenzialmente rientrano 3 grandi sotto-categorie:

  1. DISABILITÀ (tutelati dalla Legge 104/92);
  2. DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI (Disturbi Specifici dell’Apprendimento – DSA tutelati dalla Legge 170/2010; Disturbo della Coordinazione Motoria ed altri disturbi evolutivi come Disturbo da Deficit di Attenzione e/o Iperattività – ADHD, Funzionamento Intellettivo Limite – FIL, Disturbo Specifico del Linguaggio – DSL, ecc.);
  3. SVANTAGGIO SOCIO-ECONOMICO, LINGUISTICO E CULTURALE.

Come possiamo intuire, rientrano tutte quelle condizioni che possono influire sull’apprendimento dei bambini nel contesto scolastico. I BES sono, però, particolari esigenze educative che possono manifestare gli alunni anche solo per determinati periodi per motivi fisici, biologici, fisiologici o psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. 

Come per i DSA, anche qui ritroviamo una normativa creata ad hoc per rispondere alle necessità di cui abbiamo parlato, ovvero la Circolare Ministeriale “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” (C.M. n.8 del 6 Marzo 2013). La legge sancisce il diritto di ogni studente con BES a ricevere un’istruzione inclusiva che promuova la partecipazione attiva e la realizzazione del proprio potenziale. 

A questa ovviamente segue la stesura di un Piano Didattico Personalizzato ed Individualizzato (PDP) che tenga conto delle difficoltà di ciascun alunno per cui ne è richiesta l’attivazione. Il PDP definisce gli obiettivi, le strategie e gli interventi necessari per favorire l’apprendimento con indicazioni su strumenti compensativi e/o dispensativi. DEVE prevedere diversi aiuti personalizzabili in base alle esigenze del bambino, quali: interrogazioni programmate, dispensa da lettura o scrittura, maggiore tempo nelle verifiche e nei compiti, uso di mappe concettuali, calcolatrice, ecc. 

Non abbiate timore che i vostri figli possano sentirsi “diversi”…questa etichetta BES è in realtà un valido aiuto per permettere loro di fare meno fatica, in modo che sappiano sfruttare al meglio le reali risorse che possiedono. Solo così potrete assicurare loro un percorso di studi sereno e aiutarli a raggiungere gli obiettivi, anche i più impensabili che inizialmente possono apparire insormontabili! 

Dott.ssa Chiara Zaghini 

Psicologa dell’Età Evolutiva

Bibliografia

Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni operative

L’identità nella coppia

L’identità nella coppia

La ricerca di relazioni e nel caso specifico del rapporto di coppia è legata a bisogni di base dell’individuo. Siamo infatti in quanto esseri umani motivati a cercare vicinanza con un altro individuo che per noi rivesta un ruolo significativo a livello emotivo, in termini di affetto e supporto. 

La coppia in particolare è un sistema complesso, che include i partner e il loro bagaglio di vissuti, aspettative e modi di vedere il mondo; queste esperienze entrano anch’esse a fare parte a pieno titolo della relazione. È proprio poi nell’incontro tra questi due mondi che avviene la nascita della coppia e la sua storia successiva. 

Il vissuto relazionale e quello individuale, che entrambi hanno luogo anche nella coppia, rivelano alcune sovrapposizioni reciproche. La coppia rappresenta infatti anche un luogo dove ritrovare la nostra identità personale e magari riscoprire vissuti che ci hanno caratterizzato in fasi precedenti della nostra vita. 

Come dire… nella relazione in qualche modo ritroviamo noi stessi; un esempio su tutti è il feedback che l’altro ci rimanda per quanto riguarda il nostro modo di essere, inclusi pregi e difetti. Di conseguenza, a seconda di come saranno i feedback che il partner ci restituisce rispetto al nostro modo di essere, svilupperemo o comunque arricchiremo di componenti l’idea che abbiamo riguardo a come siamo e a come ci rapportiamo con gli altri. Sembrerà inutile sottolinearlo, ma ovviamente questi stessi feedback andranno a influire sulla qualità della relazione di coppia, anche in termini di grado di amore, ammirazione e desiderio percepito da parte dell’altro nei nostri confronti. Ad esempio, qualora dovesse succedere che non ci sentiamo compresi o riconosciuti per quanto riguarda aspetti della nostra persona in quanto non ce li sentiamo riconosciuti dal partner, questo potrà andare a ledere la componente di intimità e fiducia che nutriamo verso di lui.

La relazione di coppia quindi funge anche da strumento di approfondimento della conoscenza di Sé e da ulteriore luogo di sperimentazione del nostro senso di efficacia e di rafforzamento dell’autostima. 

Ovviamente il rapporto è dotato di una sua reciprocità, per cui all’interno di questo processo subentrano le nostre aspettative sugli altri, che abbiamo in gran parte appreso nel corso della nostra esperienza individuale e relazionale. Quindi, come dire, non è detto che le nostre sensazioni siano sempre oggettive, bensì possono rivelarsi anche influenzate dalla nostra percezione e dai nostri schemi appresi.

Un percorso di terapia può aiutare a rivedere insieme l’evoluzione che hanno avuto questi e altri processi per individuare eventuali aspetti di “blocco” nei quali i partner possono aver perso di vista involontariamente il focus sulla propria identità o l’attenzione nei confronti di quella dell’altro e, infine, riprendere il proprio percorso di crescita insieme, ricucendo eventuali elementi di rottura verificatisi nel corso del tempo.

Dott.ssa Diana Mabilia

Bibliografia

  • Ahmad, S., Fergus, K., Shatokhina, K., & Gardner, S. (2017). The closer ‘We’are, the stronger ‘I’am: the impact of couple identity on cancer coping self-efficacy. Journal of Behavioral Medicine, 40, 403-413. 
  • Macchioni, E. (2019). Famiglie della generazione sandwich: identità di coppia e reti di sostegno. Famiglie della generazione sandwich: identità di coppia e reti di sostegno, 161-192.
  • Parise, M. (2013). Molto più di due. Costruzione dell’identità di coppia e relazioni familiari. Vita e pensiero.
COME PRENDERSI CURA DEL PROPRIO CORPO: COS’E’ IL TRAINING AUTOGENO

COME PRENDERSI CURA DEL PROPRIO CORPO: COS’E’ IL TRAINING AUTOGENO

Ben ritrovato! Sono Veronica Griguoli, sono una psicologa e un’operatrice di Training autogeno, collaboro con Studio Progetto Vita ormai da un anno e all’interno dello studio mi occupo di percorsi di sostegno rivolti sia agli adulti sia agli adolescenti. 

Ho deciso di parlare di questo tema perché sarà che siamo vicini alle vacanze estive e la mia mente è proiettata verso le goduriose ore passate a sonnecchiare all’aperto o sarà che con il caldo degli ultimi tempi qualche ora di sonno l’abbiamo persa tutti, che ho pensato che parlarti di come esista un metodo che permetta di prendersi cura del nostro corpo e del suo bisogno di riposo quando magari la frenesia o semplicemente qualche cambiamento ci porta ad essere più “attivati” del solito.  

Un occhio alla teoria, che cos’è il TA?

Schultz (1932) con il termine Training Autogeno definì un metodo di auto distensione da concentrazione psichica che consente di modificare situazioni psichiche e somatiche. 

In particolare: “il principio fondamentale del metodo consiste nel determinare, per mezzo di particolari esercizi fisiologico-razionali, una disconnessione globale dell’organismo che, in analogia con le metodologie etero ipnotiche, permette di raggiungere le realizzazioni proprie degli stati suggestivi.”

Il Training Autogeno (TA) è un allenamento mentale, un esercizio non fisico che tuttavia agisce direttamente sul nostro fisico, sulle funzioni di base del nostro corpo e nello specifico, come vedremo, sulla sua funzionalità a livello di equilibrio neurovegetativo. Possiamo dunque ragionevolmente parlare di un allenamento che avviene a livello dell’unità psico-somatica, o della relazione mente-corpo.

In particolare, con questa tecnica si lavora su tre importanti aspetti:

  • L’aumento della consapevolezza corporea
  • L’interazione tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico
  • Gli effetti neuro-psicofisiologici del TA

Consapevolezza: quanto è importante essere consapevoli anche del nostro corpo?

Per la maggior parte della nostra vita non siamo consapevoli del nostro corpo, ce ne accorgiamo solo quando quest’ultimo ci invia dei “segnali” di mancato funzionamento. Eppure, la consapevolezza corporea è una competenza di base del nostro cervello.

Possiamo parlare di consapevolezza propriocettiva ed enterocettiva: la prima riguarda la percezione cosciente dell’articolazione e tensioni muscolari, dei movimenti, della postura e dell’equilibrio; la seconda invece è la percezione cosciente delle sensazioni provenienti dall’interno del corpo come ad esempio battito cardiaco, respirazione e sazietà.

Dati gli esercizi su cui si fonda il TA, è la consapevolezza enterocettiva ad essere particolarmente rilevante. 

Val la pena ricordare che l’enterocezione è stata di recente definita da Craig (2002) come “senso della condizione fisiologica del corpo”.

Il SNP è IL NOSTRO SECONDO CERVELLO, ma quanto conta sul nostro benessere?

Siamo spinti a credere che il nostro cervello chiuso nella sua calotta cranica, non subisca interazioni di nessuna natura. Ovviamente la realtà è diversa, non solo mente e corpo interagiscono tra loro ma addirittura si influenzano in maniera reciproca. L’effetto ideomotorio detto anche effetto Carpenter (1852) è una reazione inconsapevole generata dalla mente che produce un effetto meccanico sul corpo. Poiché non si ha l’impressione di averla generata volontariamente, si può essere convinti che una forza esterna ne sia responsabile.

 

Ideoplasia: il potenziale che la mente (ideo) ha di agire sul corpo (plasia = formazione). 

 

Il termine rende quindi bene il passaggio, la connessione tra la rappresentazione mentale di un movimento e la rispettiva implementazione a livello del sistema motorio. 

Le prove scientifiche degli scienziati Faraday e Chevreul, e degli psicologi James e Hyman, hanno in effetti dimostrato che molti fenomeni attribuiti a forze paranormali o misteriose energie, sono in realtà causa di un’azione ideomotoria.

 

La svolta di Shultz per il TA è rappresentata dal fatto di aver pensato che i processi mentali potessero avere anche la capacità opposta rispetto a quella di attivare e mandare impulsi motori. L’immaginazione diviene dunque una strategia usata per ridurre gli impulsi e raggiungere rilasciamento muscolare, per “disattivare” piuttosto che attivare. Questo viene permesso attraverso un continuo scambio di informazioni tra il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso periferico. Il primo, infatti, è ovviamente coinvolto nel momento in cui ci apprestiamo a praticare volontariamente il TA e il relativo allenamento mentale, mentre il secondo è coinvolto in quanto “esecutore” delle risposte corporee volontarie (inibite) e involontarie che ne derivano.

Quali sono gli esercizi del TA? E come si collega al discorso del sonno?

  1. Body scan: permette di focalizzare l’attenzione dall’ambiente circostante al corpo.
  2. Esercizio della pesantezza: coinvolge la muscolatura striata, riduce il tono muscolare e permette di avvertire lo stato di profondo rilassamento.
  3. Esercizio del calore: coinvolge la muscolatura liscia poiché agisce sulla distensione del sistema vascolare grazie all’ideoplasia che agisce realizzando una dilatazione dei vasi sanguigni.
  4. Esercizio del cuore: il primo degli esercizi complementari, permette alla persona di prendere contatto con il proprio ritmo cardiaco, senza cercare di modificarlo.
  5. Esercizio del respiro: anche in questo caso l’esercizio mira a scoprire il senso armonioso del proprio respiro, lasciarsi cullare da questo ritmo. Il respiro autogeno presenta: una fase inspiratoria lunga e lenta; una espirazione passiva e rapida; una breve pausa. Realizzando così un andamento sinusoidale tipico del sonno.
  6. Esercizio del plesso solare: questo intreccio di ramificazioni nervose è importante poiché innerva la maggior parte degli organi addominali, Il soggetto deve prendere contatto con questa zona “interna” e “immaginare” una sorgente di calore che da essa si irradia.
  7. Esercizio della fronte fresca: quest’ultimo esercizio riconduce all’unità psico-somatica e richiama un senso piacevole di freschezza mentale, preparando la persona alla fase di ripresa.

 

LE SCARICHE AUTOGENE

Fin dalle prime fasi del T.A. si manifestano fenomeni fisiologici: scosse muscolari, formicolii, sensazioni d’asimmetria, sensazioni di gonfiamento e galleggiamento, ecc.

Possono essere disturbanti e portare a demotivazione.

Queste risposte sono l’effetto dello scarico di “tensioni” accumulate in varie aree del cervello; tale scarico avverrebbe automaticamente perché lo stato di autogenia permetterebbe l’avvio di meccanismi protettivi o di sicurezza che agirebbero in modo autonomo. 

 

LA RIPRESA 

Ogni volta che si esegue la procedura di T.A. in parte o nella sua interezza occorre effettuare una fase di ripresa. 

Questa consiste in un movimento lento delle dita dei piedi e delle mani, si aprono e si chiudono per almeno 2 volte le mani, flettere ed estendere più volte le braccia, dapprima in modo lento e poi via via più energico, flettere per almeno 2 volte le gambe, respirare profondamente, aprire gli occhi. 

Bene, siamo arrivati alla fine di questo articolo. Spero che questo argomento ti abbia incuriosito e abbia acceso una riflessione sull’importanza dell’interazione tra corpo e mente e del bisogno di consapevolezza corporea che ciascuno di noi può imparare e ampliare.

Buona Estate Consapevole!

Dott.ssa Veronica Griguoli

Psicologa

BIBLIOGRAFIA

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Il ruolo delle funzioni esecutive: la pianificazione

Il ruolo delle funzioni esecutive: la pianificazione

Nuovo articolo, nuova funzione esecutiva. E’ giunto il momento di parlare di painificazione che per definizione è quell’insieme di attività cognitive che anticipano e regolano il comportamento e consentno di eseguire una sequenza di azioni al fine di raggiungere una meta.

Questa funzione cognitiva necessità del coinvolgimento e della modulazione di altre funzioni mentali quali l’attenzione, l’astrazione, il ragionamento, la memoria di lavoro, la formulazione di un piano d’azione, il monitoraggio delle azioni e la valutazione del risultato. Per essere in grado di pianificare, infatti, è necessario innanzititto dirigere l’attenzione e focalizzarla sul problema in modo funzionale. 

In aggiunta, la pianificazione risulta di così fondamentale importanza perché è coinvolta anche in altri processi cognitivi superiori come ad esempio il porblem solving (risoluzione di un problema) e i porcessi di decision making (capacità di decidere)

 

In che modo potenziare la pianificazione?

Le attività per allenare questa importante abilità cognitiva sono molteplici e come scoprirete, molti di questi giochi sono facilmente reperibili e utilizzabili.

Eccone alcuni per voi:

  • Tangram, un gioco rompicapo di origine orientale che si compone di sette tavolette (dette tan) suddivise in 5 traingoli, 1 quadrato e 1 parallelogramma inizialmente disposte a formare un quadrato. Scopo del gioco è comporre determinate figure utilizzando tutti i pezzi a disposizione senza sovrapporli e con la possibilità di ruotarli.
  • Il gioco del quindici, gioco della tradizione che piace a grandi e piccini; consiste in una tabella a forma quadrangolare suddivisa in 16 quadrati (quattro righe e quattro colonne) su cui sono posizionate 15 tessere numerate in modo progressivo da 1 a 15, che possono scorrere in direzione verticale o orizzontale. Scopo del gioco è quello di riordinare le tesseree a partire da una configurazione iniziale disordinata in cui tutti i nuemeri sono presentati in modo casuale. Oltre al gioco fisico, sono presenti anche risorse digitali gratutite quali ad esempio Skill 15.
  • Mastermind, gioco da tavolo che prevede che un giocatore assuma il ruolo di “decodificatore” che ha il compito di indovinare il codice segreto (4 palline di diverso colore poste in serie) creato e composto da un secondo giocatore, nel ruolo di “codificatore”. Il codice segreto può essere indovinato attraverso una serie di tentativi grazie ai feedback che provengono dal codificatore il quale può dare informazioni all’avversario rispetto alla correttezza o meno del colore e della posizione. Questo gioco oltre che coinvolgere le abilità di painificazione, richiede anche l’attivazione dekke abilità di problem solving e di memoria di lavoro; I bambini o i ragazzi impegnati in questo gioco, infatti, devono focalizzare l’attenzione sui feedback del codificatore, implementarli, verificare e monitorare le sue risposte e operare eventuali modifiche e aggiusamenti al fine di svelare il codice; un gioco quindi complesso ma davvero molto accattivante e coinvolgente.
  • Labirinti, utili soprattutto per i più piccoli ma, proponendone alcuni di difficoltà maggiore sono delle attività sempre molto stimolanti e accattivanti per i bambini; la modalità di proposta principale è quella di schede “carta-matita” ma potete facilmente trovare anche attività computerizzate reperbili gratuitamente in rete

Che vi dicevo? Molti di questi sono giochi a voi noti vero? 

Da oggi in poi sapete che, divertendovi e giocando, avete la possibilità di allenare le abilità di pianificazione vostre e dei vostri bambini! E quindi…. evviva il gioco !!!

Dott.ssa Benedetta Levorato

Psicologa dell’età evolutiva

Bibliografia:

  • Marotta L. e Varvara P. (2013), Funzioni esecutive nei DSA – Disturbo di Lettura: Valutazione e Intervento, Trento, Edizioni Erickson.
L’EMOZIONE DELLA SORPRESA È BELLA O BRUTTA?

L’EMOZIONE DELLA SORPRESA È BELLA O BRUTTA?

Quando abbiamo parlato delle emozioni fondamentali, abbiamo visto come se ne sia aggiunta una sesta, la sorpresa. Anche questa, quindi, fa parte del repertorio emotivo di ciascuno di noi, ma scopriamo insieme di che cosa si tratta.

Tendenzialmente, si sperimenta sorpresa di fronte a situazioni nuove ed inaspettate. Però c’è da fare un’importante distinzione tra una sorpresa intesa in senso piacevole e una, invece, spiacevole.

Ad esempio, quando i nostri bimbi ricevono un bel regalo o qualcuno organizza loro una festa, l’espressione che si stampa sul loro viso è di sorpresa e stupore. A questa si può, quindi associare, la gioia nello scartare il regalo e scoprire che si tratta proprio di quello tanto desiderato. La sorpresa, quindi, si può intersecare e sovrapporre ad altre emozioni che abbiamo conosciuto nelle “puntate” precedenti.

Ma la mimica tipica della sorpresa la possiamo intravedere anche in un contesto non così piacevole come quando, ad esempio, succede qualcosa che non ci si aspettava e che scombussola i piani. Insieme alla sorpresa, quindi, si può sperimentare anche paura e preoccupazione di fronte all’ignoto; i bambini o i ragazzi possono avvertire la perdita di un punto di riferimento e il dubbio rispetto a cosa fare o non fare. 

Fondamentale guardare queste ultime situazioni da una prospettiva diversa: cambiamo le lenti dei nostri occhiali attraverso cui guardiamo il mondo! Trasmettiamo ai nostri ragazzi l’idea che, anche imbattendoci in qualcosa di inaspettato, questo possa poi rivelarsi un’ottima occasione di apprendimento, in cui sperimentare nuove competenze e in cui raggiungere nuovi obiettivi attraverso questa nuova sfida. La novità deve essere sempre accolta come qualcosa di positivo, come fonte di crescita!

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

Bibliografia:

  • Di Pietro Mario (2014). “L’ABC delle mie emozioni”. Trento, Erickson.