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IL GIOCO DELLO “SPECCHIO”

IL GIOCO DELLO “SPECCHIO”

Tutti voi in casa avrete sicuramente almeno uno specchio…e sapete benissimo a cosa serve. Ora osserviamolo insieme da un’altra prospettiva ed introduciamo il concetto di “rispecchiamento emotivo”. 

Trattiamo questo tema pensando, più nello specifico, ai bambini molto piccoli ed alle loro prime fasi di vita. Nella relazione primaria genitore-figlio si pongono le basi per tutte le future relazioni della vita, per cui è fondamentale non trascurare il “sottofondo” emotivo. 

Ma perché parliamo di specchio?

La madre riflette sul viso i sentimenti del suo bambino grazie alla sua profonda empatia; in questo modo il figlio vede in lei come in uno specchio e lì trova se stesso. In questo gioco di rispecchiamento la madre contemporaneamente attribuisce significati anche ai più piccoli movimenti inconsapevoli del bambino: sospiri, esitazioni, pianti, sorrisi, rilassamenti, irrigidimenti. Questa valenza emotiva, come già anticipato, resterà alla base di ogni apprendimento futuro ed accompagnerà il bambino nella sua crescita; investirà tutte le figure significative della sua vita, compresi educatori ed insegnanti.

Se riflettete e provate a rievocare i momenti in cui i vostri bimbi erano piccoli, sicuramente vi torneranno in mente gli episodi in cui, di fronte ad un evento e poco prima di reagire, tendevano a voltarsi e a guardarvi come per “sapere” cosa era successo. Sembravano volervi dire: “Cos’è successo? Cosa mi succede? Cosa provo? Dolore? Paura? Bisogno di protezione? Devo arrabbiarmi?”. O come a chiedere conferma del loro stato emotivo e mentale: “È appropriato ciò che provo?”.

L’esempio classico che balza alla mente è quello in cui il bimbo cade e si sbuccia il ginocchio…voi come reagivate a questa situazione? Provate a mettervi in discussione e a riflettere se la vostra tendenza era quella di convalidare lo stato emotivo del bimbo, fornendogli sicurezza e contenimento o se, al contrario, lo rifiutavate e lo conducevate solo ad una semplice distrazione dall’accaduto. 

Secondo voi, qual è il giusto approccio? In che modo riusciamo a mostrarci realmente empatici e ad entrare in sintonia con nostro figlio? Attraverso quale modalità lui capirà l’appropriatezza dei propri sentimenti?

Ricordiamoci che la reazione dell’adulto è determinante sia per la comprensione dell’evento, sia come informazione su come reagire e cosa provare.

Dott.ssa Chiara Zaghini 

Psicologa dell’Età Evolutiva

BIBLIOGRAFIA: 

Bosi Rosanna (2020). “Pedagogia al nido. Sentimenti e relazioni”. Carocci Faber.

Perché dovresti imparare a gestire le tue emozioni anche se sei adulto? 

Perché dovresti imparare a gestire le tue emozioni anche se sei adulto?

Le emozioni sono un mondo molto vasto, spesso si è soliti pensare che gestire le proprie emozioni sia un compito semplice ma forse non tutti sanno che questo richiede un vero e proprio “apprendimento”.  Perché ho deciso di scrivere un articolo su questo argomento? Perché il rischio di non “imparare” questa funzione ha un costo molto alto. Permettimi di spiegarti meglio…

La disregolazione emotiva negli adulti è un fenomeno che può avere una vasta gamma di impatti sulle loro vite, influenzando il loro benessere emotivo e le loro relazioni interpersonali. Questa condizione riguarda la difficoltà di controllare, regolare e gestire in modo sano le proprie emozioni, portando a un’esperienza emotiva e comportamentale disfunzionale.

Partiamo dagli effetti sulla salute mentale; numerosi studi hanno dimostrato una forte associazione tra la disregolazione emotiva negli adulti e una serie di disturbi mentali, tra cui depressione, ansia e disturbo borderline di personalità (BPD). Ad esempio, un’indagine pubblicata su Psychological Bulletin ha rilevato che livelli elevati di disregolazione emotiva erano significativamente correlati a sintomi depressivi e ansiosi. Allo stesso modo, molte ricerche hanno evidenziato un’associazione tra disregolazione emotiva e BPD, suggerendo che la difficoltà di regolare le emozioni può svolgere un ruolo chiave nello sviluppo e nella persistenza di questo disturbo.

Non riuscire a gestire efficacemente le proprie emozioni inoltre, ha degli effetti sulle relazioni interpersonali; infatti, la disregolazione emotiva negli adulti può avere un impatto significativo sulle loro relazioni interpersonali. Ad esempio, l’incapacità di regolare adeguatamente le proprie emozioni può portare a frequenti ed estreme variazioni di umore, rendendo difficile per i soggetti di affrontare e risolvere conflitti relazionali in modo sano ed efficace. Un articolo pubblicato su Journal of Abnormal Psychology ha anche evidenziato come la disregolazione emotiva possa compromettere la reciproca regolazione emotiva all’interno delle coppie, portando a dinamiche disfunzionali e a un maggiore rischio di conflitti.

In più chi fa fatica a gestire le proprie emozioni ha un rischio più elevato di ricorrere a comportamenti autolesionistici e all’abuso di sostanze. Diverse ricerche hanno dimostrato che individui che lottano con la regolazione emotiva presentano una maggiore tendenza a impegnarsi in comportamenti autolesionistici, come il taglio o l’auto-bruciatura, con lo scopo di alleviare l’angoscia emotiva. Un articolo pubblicato su Comprehensive Psychiatry ha anche evidenziato una forte correlazione tra la disregolazione emotiva e l’abuso di sostanze, suggerendo che l’incapacità di modulare le emozioni aumenta il rischio di ricorrere all’uso di droghe o alcol per gestire le proprie difficoltà emotive.

Si può quindi concludere dicendo che la disregolazione emotiva negli adulti può avere gravi conseguenze sulla salute emotiva e sulle relazioni interpersonali. La letteratura scientifica ha ampiamente dimostrato l’associazione tra disregolazione emotiva e disturbi mentali come la depressione, l’ansia e il disturbo borderline di personalità. Inoltre, la disregolazione emotiva può portare a dinamiche disfunzionali all’interno delle relazioni, influenzando la comunicazione e la risoluzione dei conflitti. Infine, la disregolazione emotiva può aumentare il rischio di comportamenti autolesionistici e di abuso di sostanze come meccanismo di coping disfunzionale.

Per affrontare la disregolazione emotiva negli adulti, è essenziale un intervento terapeutico specializzato che aiuti gli individui a sviluppare una maggiore consapevolezza emotiva, delle abilità di regolazione e delle strategie di coping più sane. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e in particolare l’approccio basato sulla DBT (terapia dialettico comportamentale) che fonda le proprie tecniche sulla consapevolezza, come la mindfulness, sono spesso utilizzati in questo contesto per migliorare il benessere emotivo e facilitare una migliore regolazione delle emozioni.

Sono Veronica Griguoli, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, mi occupo di percorsi di supporto per adulti e ragazzi e spero di averti aiutato a capire quanto importante sia prendersi cura delle proprie emozioni.

Se hai dubbi o domande, non esitare a scrivermi o a contattare lo studio. Sarò molto felice di aiutarti.

A presto!

Dott.ssa Veronica Griguoli

Riferimenti bibliografici:

 

– Gratz, K. L., & Roemer, L. (2004). Multidimensional assessment of emotion regulation and dysregulation: Development, factor structure, and initial validation of the difficulties in emotion regulation scale. Journal of Psychopathology and Behavioral Assessment, 26(1), 41-54.

 

– Kring, A. M. (2009). Emotion regulation and psychopathology: A transdiagnostic approach to etiology and treatment. In K. D. Vohs & E. J. Finkel (Eds.), Self and relationships: Connecting intrapersonal and interpersonal processes (pp. 31-47). New York, NY: Guilford Press.

 

– Selby, E. A., Brinton, J. C., & Joiner, T. E. (2008). The interpersonal theory of suicide: Implications for psychopathology research on borderline personality disorder. Journal of Personality Disorders, 22(4), 460-472.

Cellulare si, cellulare no? Ecco cosa dice la ricerca in psicologia

Cellulare si, cellulare no? Ecco cosa dice la ricerca in psicologia

Buongiorno, sono la dott.ssa Giulia Franco, sono psicologa dell’età evolutiva e presso lo Studio Progetto Vita mi occupo di valutazione, trattamento e potenziamento in età evolutiva.Nella quotidianità del mio lavoro mi capita spesso di incontrare bambini e ragazzi completamente assorbiti dal cellulare, che faticano a relazionarsi con i pari e con gli adulti, per questo motivo ho deciso di approfondire questa nuova realtà e di riportare in questo articolo alcune curiosità che potrebbero essere interessanti.

 

Come dicevo, vedere adulti, ma soprattutto ragazzi e anche bambini in tenera età con uno smartphone in mano ormai fa parte della nostra quotidianità.

Visto l’uso importante che ormai facciamo di questi strumenti, la ricerca in ambito psicologico ha deciso di concentrare la propria attenzione sulle conseguenze che un eccessivo utilizzo del cellulare può provocare nel nostro cervello e nel nostro essere “animale sociale”.

Hai mai provato a pensare quante volte utilizzi il cellulare in una giornata?

Recenti studi hanno fornito dati importanti a tal proposito: la nota azienda tecnologica Apple afferma che ogni giorno sblocchiamo il cellulare almeno 80 volte, mentre Dscout, società americana esperta in ricerche di mercato, riporta che in media tocchiamo, digitiamo e “strisciamo” il nostro cellulare circa 2600 volte al giorno, e questo lo facciamo in particolari momenti della giornata, soprattutto durante i pasti, riunioni, o nel tempo che dovremmo dedicare ad una bella dormita.

Una domanda che dovremmo porci è quindi..Quali sono le conseguenze di questo utilizzo così massiccio dello smartphone?

L’effetto più evidente è il ritiro e l’isolamento sociale in momenti in cui si potrebbe facilmente creare relazioni, ad esempio durante la ricreazione a scuola o la cena in famiglia, oppure ancora mentre si prende un caffè con un amico o con il partner (Chiu, S.I., 2014, Samaha, M., Hawi, N.S., 2016; Westermann, T., Moller, S., Wechsung, I., 2015)

Pensate che questo comportamento ha un nome! Con il termine “Phubbing” (da “phone”=telefono e “snubbing” =ignorare, snobbare, trascurare), neologismo inglese recentemente coniato, ci si riferisce al comportamento del non prestare attenzione all’interlocutore preferendo lo smartphone. 

Così l’uso eccessivo di smartphone può mettere a rischio i rapporti personali e professionali, e le ricerche lo dimostrano: nel 2016 il prof. James A. Roberts della Baylor University ha coinvolto in una ricerca 145 persone tra uomini e donne, e di questi il 46% ha dichiarato di aver “snobbato” con lo smartphone il proprio partner almeno una volta, il 23% ha dichiarato che il “phubbing” avesse causato la fine della propria relazione, infine il 37% si era sentito depresso almeno una volta a causa del phubbing.

 

Esiste poi un altro effetto indotto dall’uso eccessivo dello smartphone..

Non appena il cellulare suona o vibra avviene una complessa interazione di sostanze chimiche del cervello: in primis la dopamina, un neurotrasmettitore responsabile della motivazione e del comportamento alla ricerca di ricompense, e che consente con il tempo il formarsi di un’abitudine o di una dipendenza. Il rilascio di questa sostanza, con il passare del tempo, avviene anche prima della ricezione della notifica, e per questo la persona sentirà sempre più la motivazione all’utilizzo. 

Per questo abbiamo il bisogno di controllare e utilizzare il telefono sempre più spesso per ottenere la stessa risposta cerebrale. Di conseguenza non avere il cellulare a disposizione per un determinato periodo di tempo, più o meno lungo, può provocare uno stato d’ansia o addirittura sintomi simili all’astinenza.

E se controlliamo il cellulare anche durante lo studio o il lavoro, esso influenza negativamente la produttività e l’attenzione che dovremmo impiegare per svolgere correttamente le nostre attività. (Giedd, J., N., 2012; Choudhury, S., 2013; Berridge, Robinson, 1998)

 

In conclusione, l’obiettivo di questo articolo non vuole essere la svalutazione della tecnologia e delle connessioni social, ormai parte integrante e fondamentale della vita di ognuno di noi, soprattutto dopo l’emergenza Covid-19, ma vuole attivare delle riflessioni basandosi su osservazioni ottenute da ricerche scientifiche.

Dott.ssa Giulia Franco

Psicologa dell’età evolutiva

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

(https://www.thebestbrainpossible.com/phone-mental-health-depression-anxiety-addiction)

PARENT TRAINING: DAL PROBLEMA AL CAMBIAMENTO

PARENT TRAINING: DAL PROBLEMA AL CAMBIAMENTO

Ritorniamo a parlare dei disturbi comportamentali. Un trattamento autoregolativo rivolto al bambino molto spesso non funziona al 100% in quanto i risultati restano limitati per mancanza di generalizzazione a tutti i contesti di vita, in primis a casa. Inoltre, le particolari modalità di funzionamento delle famiglie non favoriscono la remissione dei sintomi del disturbo. Ma cosa ritroviamo, quindi, nei genitori e nel contesto domiciliare?

  • Clima familiare teso
  • Elevata conflittualità tra i membri
  • Scarso controllo delle regole
  • Limitate abilità di problem solving
  • Scambi relazionali basati su coercizione ed ostilità
  • Eccessiva lassità VS eccessiva rigidità
  • Iper-reattività con soglie minime di pazienza
  • Iper-focalizzazione sui comportamenti disturbanti
  • Impulsività e difficile controllo della rabbia

Parliamo, quindi, di Parent Training e comprendiamolo più da vicino attraverso alcune semplici domande.

A chi è rivolto?

Come avrete sicuramente già intuito, stiamo parlando di un percorso rivolto esclusivamente a voi genitori. Il target di intervento è l’area dei disturbi comportamentali, quindi i vostri figli potrebbero rientrare nei quadri diagnostici di ADHD, DOP (Disturbo Oppositivo-Provocatorio), oppure manifestare semplicemente disregolazione comportamentale. È un percorso in cui si richiede la presenza di entrambi i genitori e che viene svolto in piccolo gruppo, con un conduttore esperto che propone gli argomenti e favorisce la discussione tra i membri. Partecipare a coppie favorisce senso di gruppo, non sentendosi soli nell’affrontare questa dura battaglia; inoltre, emerge complicità grazie all’aiuto reciproco che voi genitori saprete fornirvi a vicenda. 

Quanto dura?

Tendenzialmente il Parent Training viene proposto in un numero di incontri variabile tra 8/10, della durata di circa 90 min ciascuno, con cadenza bisettimanale.

Quali sono gli obiettivi?

  • Favorire la modifica di pensieri ed atteggiamenti non positivi al cambiamento (es. “lo fa apposta”, “vuole solo attirare l’attenzione”, “qualsiasi cosa faccia, non serve a niente”, “è tutta colpa mia”)
  • Fornire gli strumenti per la gestione delle problematiche cognitive e comportamentali del bambino
  • Creare un quadro equilibrato delle potenzialità e delle difficoltà del bambino (punti di forza e punti di debolezza)
  • Aiutare il genitore a porsi come modello nella soluzione dei problemi 
  • Favorire il passaggio dal rinforzo negativo dei comportamenti inappropriati al prestare attenzione e fornire gratificazioni di fronte a quelli positivi e desiderati
  • Analizzare i problemi del figlio per ricercarne, in maniera attiva, la soluzione

Quali saranno i risultati?

I genitori, al termine del percorso, diventeranno più riflessivi, coerenti ed organizzati e a loro volta sapranno crescere figli più autonomi nel trovare modalità alternative di pensiero e di comportamento. Studi di efficacia post-trattamento dimostrano la diminuzione dei sintomi di disregolazione, specialmente quando viene combinato al training autoregolativo seguito dal bambino stesso. Infine, cosa importantissima da non sottovalutare, si ottiene un conseguente aumento del senso di competenza nei genitori.  

Ora che siamo giunti al termine di questa veloce carrellata di informazioni, vi ho convinti a partecipare al prossimo gruppo in partenza? Uno lo abbiamo già accompagnato al termine e il loro feedback è stato super incoraggiante! Aspettiamo anche voi!

Dott.ssa Chiara Zaghini 

Psicologa dell’Età Evolutiva

BIBLIOGRAFIA:

  • “Parent Training per l’ADHD” (Erickson)
  • “Bambini disattenti e iperattivi: Parent Training” (Erickson)
Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): seconda parte

Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): seconda parte

Bentornato, se hai letto la prima parte sul disturbo oppositivo ti do il benvenuto nella seconda parte, in cui ti illustrerò quelle che sono le cause e i fattori di rischio che contribuiscono al disturbo e il trattamento.

Cause e fattori di rischio del disturbo oppositivo provocatorio

Non esiste una causa unica che spieghi il Disturbo Oppositivo Provocatorio , ma la letteratura scientifica attuale ci consente di parlare di fattori di rischio e di protezione che influenzano il presentarsi dei sintomi e loro sviluppo.
In particolare, fattori di rischio genetici (es. la familiarità per il disturbo, geni coinvolti nella regolazione di alcuni neurotrasmettitori come la dopamina e serotonina, implicate nella regolazione delle emozioni) ambientali (es. il bambino è inserito in un ambiente sociale, culturale e familiare che non si prende cura del bambino o che lo abusa, sia a livello fisico che psicologico) possono avere un ruolo importante nell’innescare il Disturbo Oppositivo Provocatorio.
Altri fattori di rischio sono: 

Fattori familiari:

-disturbi mentali presenti nei membri della famiglia,

-pratiche educative troppo rigide, o incoerenti o addirittura negligenti nei confronti del bambino,

-maltrattamenti,

-conflitti familiari.

Fattori cerebrali: diminuzione del volume e alterazione dell’attività di alcune aree del cervello deputate al controllo delle emozioni, pianificazione, motivazione (corteccia prefrontale, amigdala, insula).

Sono considerati, invece, fattori di protezione una buona qualità delle relazioni affettive con le figure che si occupano del bambino e un’educazione familiare costante e che trasmette fiducia. 

Diagnosi

Per la diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio lo specialista raccoglie i sintomi e ne analizza l’intensità, la frequenza e la durata per escludere quei comportamenti che sono normali per l’età e lo sviluppo del bambino.

È importante poi escludere quelle condizioni che presentano manifestazioni simili al disturbo oppositivo provocatorio, come ad esempio:

  • Disturbo della condotta (che in alcuni insorge successivamente)
  • Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (che può essere associato)
  • Disturbo del comportamento dirompente
  • Disturbo esplosivo intermittente
  • Disturbo dello sviluppo intellettivo
  • Disturbo del linguaggio
  • Fobia sociale

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola (teacher training) oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale (parent training) ed una terapia individuale con il bambino. Per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. 

Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;

Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi.

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva e adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre, si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). 

In particolare, tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento (Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazioni interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Riflessioni importanti:

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine, si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Bibliografia

  • Herschell, E. Calzada, S. Eyberg, C. McNeil Cognitive and Behavioral Practice 9, 9-16, 2002
  • AACAP, (2009). Oppositional Defiant Disorder: A Guide for Families. AACAP Practice Parameter.
  • Ainsworth, M. D. S. (1985). Patterns of Infant-Mother Attachment: Antecedents and Effects on Development. II. Attachment across Life Span, Bull. New York Acad. Med., 61: 771-91.
  • Allan Tasman,Jerald Kay,Jeffrey A. Lieberman,Michael B. First, Michelle Riba. Psychiatry – Fourth Edition- Volume 1, John Wiley & Sons, 2015.
  • American Psychiatic Association. (2014). DSM-V Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 5ª ed. Milano: Masson. 
  • Bandura, A. Aggression: A social learning analysis. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall. 1973.
  • Bender, L. (1953). Aggression, hostility and anxiety in children. Springfield: Charles C. Thomas Publisher.
  • Bowlby J. (1983). Attaccamento e perdita. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Boylan K. The Many Faces of Oppositional Defiant Disorder. J Can Acad Child Adolesc Psychiatry. 2014; 23(1): 8-9
  • DSM V – Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali, 5 edizione
  • Ghosh A. et al, Oppositional defiant disorder: current insight. Psychol Res Behav Manag. 2017; 10: 353-367
  • Lavigne JV. et al, Treating Oppositional Defiant Disorder in Primary Care: A Comparison of Three Models. Journal of Pediatric Psychology. 2008; 33: 449-461
  • Schoorl J. et al, Emotion Regulation Difficulties in Boys with Oppositional Defiant Disorder/Conduct Disorder and the Relation with Comorbid Autism Traits and Attention Deficit Traits. PloS One. 2016; 11(7).

 

Quali sono i prerequisiti del linguaggio?

Quali sono i prerequisiti del linguaggio?

Cosa serve al tuo bimbo/a per riuscire a sviluppare il linguaggio?
Come riescono a capire cosa stiamo chiedendo loro?
Come gestiscono la parte della socializzazione attraverso la comunicazione?
Come imparano più lingue?
Come iniziano ad articolare dei suoni per poi creare delle parole?

“La comunicazione comincia nella prima infanzia, molto prima che il bambino sia capace di pronunciare le sue prime parole” (Bortolini e Basso, 2017)

L’acquisizione del linguaggio è un processo che parte da lontano, un percorso che prevede lo sviluppo di piccole abilità non verbali ma comunicative che il bambino sviluppa nel corso del primo anno di vita. Tali abilità sono definite con il termine “prerequisiti” e attraverso la loro stimolazione il linguaggio comincia a fiorire.

Per un genitore, conoscere, osservare e stimolare tali competenze è di fondamentale importanza per favorire lo sviluppo del linguaggio del proprio bimbo/a o per riconoscere eventualmente un ritardo nella sua acquisizione. 

Vediamo nello specifico quali sono i prerequisiti comunicativi più importanti:

  • Contatto oculare: Intorno ai 3 mesi di vita il bambino sviluppa la capacità di agganciare lo sguardo e di mantenere il contatto visivo durante l’interazione. Tale abilità, favorisce la comprensione delle espressioni facciali e l’osservazione dei movimenti della bocca utili poi, successivamente, per l’articolazione delle parole;
  • Intenzionalità comunicativa: presente nei primi mesi di vita, ma si stabilizza intorno ai 9-10 mesi.  Rappresenta il desiderio di voler comunicare, inizialmente con i gesti e poi con le parole. 
  • Attenzione congiunta compare intorno ai 10 mesi e indica la capacità del bambino di condividere, attraverso gesti e sguardi, l’attenzione su un oggetto esterno con il proprio interlocutore (mamma-oggetto- bambino)
  • Alternanza del turno: la comunicazione perché sia efficace, si compone di più turni: “ora tocca a te e io ascolto, ora tocca a me e tu ascolti”. Tale abilità è già presente intorno ai 3 mesi di vita durante le “protoconversazioni” con il genitore (es. scambio alternato di vocalizzi);
  • Uso di gesti comunicativo: l’uso dei gesti serve al bambino per comunicare prima che sappia utilizzare le parole; difatti viene definita “comunicazione prelinguistica”. Attraverso questi elementi il bambino “chiede” e “racconta”;
  • Gesto dell’indicare (pointing): compare verso gli 8-9 mesi, inizialmente ha scopo richiestiivo, successivamente viene usato per mostrare, condividere un oggetto, catturando l’attenzione dell’interlocutore; 
  • Imitazione: capacità alla base dello sviluppo del linguaggio. Il bambino impara a imitare le espressioni facciali e i movimenti delle labbra di chi gli parla;
  • Gioco simbolico: il gioco del “saper far finta”, compare verso i 12-18 mesi. È di fondamentale importanza per favorire lo sviluppo del linguaggio e permette di fare esperienza. Il bambino impara a dare un significato simbolico ad un oggetto e interpreta a suo piacimento, una storia. Ripete gesti e azioni conosciuti “prende in mano un cucchiaio e per finta mangia, chiude gli occhi e per finta dorme…”, trasforma gli oggetti facendoli diventare ciò che gli serve per il suo gioco. 

Dott.ssa Gabriella Lurino

Logopedista

Corpo e Psiche sono indivisibili: l’Osteopatia nel paradigma PNEI

Corpo e psiche sono indivisibili: l'Osteopatia nel paradigma PNEI

L’Osteopatia è definibile come una terapia manuale alternativa basata sulle stesse conoscenze di anatomia e fisiologia della medicina convenzionale, ma con una visione unitaria (olistica) del corpo umano basandosi su un approccio causale e non sintomatico. 

Questo cosa vuol dire? Che l’osteopatia eviterà sempre di concentrarsi esclusivamente sul sintomo lamentato dal Paziente, ma andrà alla ricerca delle cause, dei meccanismi fisiopatologici e di alterata funzionalità che sottendono il dolore accusato dall’individuo.

Sì, individuo come individuale è il trattamento in quanto ognuno di noi è unico e nel suo tutto esprime una rete (network) di sistemi in relazione tra loro ed indivisibili, le cui basi scientifiche sono state ampiamente dimostrate dalla PNEI.

L’acronimo PNEI sta per psiconeuroendocrinoimmunologia, la materia che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici, rappresentati dall’endocrinologia, dall’immunologia e dalle neuroscienze.

Questo concetto si è poi trasformato in un vero e proprio paradigma e cioè un modello interpretativo del funzionamento del corpo umano, in salute e quando si ammala. Il tutto parte dallo studio dello stress, inteso come la risposta che il nostro organismo attiva a uno stimolo esterno come adattamento alle proprie funzioni fisiologiche. Lo stimolo può essere fisico, infettivo, psichico e indipendentemente dal tipo di agente stressogeno, si attiva una reazione neurovegetativa e neuroendocrina che rilascia ormoni e neurotrasmettitori dalle ghiandole surrenali. Nel contempo l’aumento della produzione del cortisolo da parte delle surrenali causa una soppressione della risposta immunitaria, evidenziando in questo modo il primo collegamento biologico tra cervello, stress e immunità.

Nella biologia dell’immunità occorre sottolineare che i linfociti (cellule del sistema immunitario) hanno recettori per gli ormoni e i neurotrasmettitori prodotti dal cervello e che, al tempo stesso, producono ormoni e neurotrasmettitori simili a quelli encefalici. Ecco perché la comunicazione tra cervello e immunità è bidirezionale.

Ed inoltre le fibre nervose periferiche rilasciano sostanze (neuropeptidi) attivatorie o inibitorie della risposta immunitaria, spiegando come un’infiammazione possa avere un’origine nervosa (infiammazione neurogena). Al tempo stesso le citochine rilasciate dalle cellule immunitarie, attraverso il sangue o mediante la trasmissione nervosa di alcuni nervi cranici, come il nervo vago, sono in grado di far arrivare segnali ad aree specifiche dell’encefalo, e quindi di influenzare sia le attività biologiche (esempio fame, febbre, sazietà) sia quelle psicologiche (ansia, depressione). 

L’alterazione dell’asse ormonale ipotalamo ipofisi surrene (sistema dello stress), la sovrapproduzione di cortisolo o una mancata regolazione immunitaria in senso pro-infiammatorio possono essere responsabili di sintomi e disturbi che solitamente vengono riferiti al campo della somatizzazione, nonché ai tipici sintomi psicosomatici, che accompagnano sia disagi di cui si occupano la psicologia e la psichiatria (ansia, depressione, sindrome da fatica cronica), sia disordini di carattere più propriamente medico (malattie autoimmuni, cancro).

Si dimostra quindi attraverso la fisiologia, la biologia molecolare e le evidenze scientifiche come ciò che accade nella dimensione psichica di una persona abbia delle conseguenze sui suoi sistemi biologici: sul sistema nervoso, endocrino, immunitario, ma anche sul sistema muscolo scheletrico. Una relazione di sistemi che fa dell’individuo un’unità e che funziona anche all’inverso e cioè quando dai sistemi biologici, dal sistema muscolo scheletrico, dalle strutture fisiche dell’organismo, va dal corpo alla mente, viene influenzato non solo l’assetto del cervello ma anche le funzioni cerebrali, quindi sia la componente cognitiva che l’aspetto emozionale.

L’Osteopatia con il fondatore Andrew Taylor Still ha sempre cercato di mettere in evidenza il funzionamento complessivo dell’organismo e quindi le relazioni tra il sistema muscolo scheletrico, il connettivo, l’assetto fisico dell’organismo, da una parte, e gli organi e la mente stessa dall’altra. 

In conclusione attraverso l’ottica PNEI è possibile utilizzare un approccio integrativo e un dialogo costruttivo tra professionisti della Salute promuovendo una prevenzione e una terapia che vada oltre la storica contrapposizione filosofica e scientifica tra mente e corpo superandone i rispettivi riduzionismi, facilitando una sinergia che possa incrementare davvero il livello di Salute di ogni singolo Paziente.

Andrea Viale DO mROI

Blibliografia:

  • Bottaccioli (2015), PSICONEUROENDOCRINOIMMUNOLOGIA
  • Chiera, Barsotti, Lanaro, Bottaccioli (2017), LA PNEI E IL SISTEMA MIOFASCIALE: LA STRUTTURA CHE CONNETTE