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L’importanza dell’integrazione sensoriale

L’importanza dell’integrazione sensoriale

Immaginate che ogni persona sia un insieme di parti, e queste parti devono per forza comunicare e scambiare informazioni tra loro. Ogni persona ha aspetti individuali che appartengono solo a lui/lei, ogni persona ha tempi diversi, ogni persona elabora gli stimoli differentemente, ogni persona reagisce a suo modo. Nessuno è uguale all’altro. Siamo tutti diversi. E diverso è anche il nostro modo di processare gli stimoli sensoriali. 

Che cosa vuol dire processamento sensoriale?

Il processamento è l’organizzazione e l’interpretazione che il nostro cervello mette in pratica rispetto a degli stimoli esterni. È come se facesse un confronto con le esperienze passate e le mettesse in ordine. Ognuno di noi ha un profilo individuale e un processamento sensoriale individuale, questo vuol dire che il nostro cervello elabora queste informazioni diversamente, perché ogni persona ha avuto esperienze di vita, culture, ambienti, famiglie che non sono mai simili ad altri.

Ma come possiamo avere un buon processamento sensoriale?

Attraverso le esperienze sensori-affettivo-motorie. Ogni giorno possiamo provare migliaia di esperienze diverse, ma soprattutto creare il contesto adeguato affinché ogni bambino possa provarle. Questa tipologie di esperienze sono fondamentali per lo sviluppo dei nostri bambini, perché lo coinvolgono a 360 gradi: coinvolgono le sue emozioni, la sua affettività, il suo corpo e i suoi sistemi sensoriali. I sistemi sensoriali, sono diversi dai nostri organi di senso, in quanto consistono nelle funzionalità e nei recettori dei nostri organi che inviano informazioni al cervello e sono 8: sistema olfattivo, sistema uditivo, sistema tattile, sistema visivo, sistema gustativo, sistema vestibolare, sistema propriocettivo, sistema eterocettivo. Ecco perché è importante per ogni bambino poter fare più esperienze possibili, ma soprattutto dopo aver letto tutto questo, potete capire quanto importante sia il corpo e quanto importante sia usarlo. Se lasciamo i bambini privi di sperimentare, privi di sporcarsi, privi di arrampicarsi, privi di stare in natura, limitiamo il loro sviluppo. Se lasciamo i bambini davanti a dispositivi tecnologici, limitiamo il loro corpo, limitiamo l’integrazione sensoriale, limitiamo il loro sviluppo. 

Dott.ssa Laura Garrone

Pedagogista clinico, psicomotricista funzionale, neuropedagogista e terapista dirfloortime

Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): seconda parte

Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): seconda parte

Bentornato, se hai letto la prima parte sul disturbo oppositivo ti do il benvenuto nella seconda parte, in cui ti illustrerò quelle che sono le cause e i fattori di rischio che contribuiscono al disturbo e il trattamento.

Cause e fattori di rischio del disturbo oppositivo provocatorio

Non esiste una causa unica che spieghi il Disturbo Oppositivo Provocatorio , ma la letteratura scientifica attuale ci consente di parlare di fattori di rischio e di protezione che influenzano il presentarsi dei sintomi e loro sviluppo.
In particolare, fattori di rischio genetici (es. la familiarità per il disturbo, geni coinvolti nella regolazione di alcuni neurotrasmettitori come la dopamina e serotonina, implicate nella regolazione delle emozioni) ambientali (es. il bambino è inserito in un ambiente sociale, culturale e familiare che non si prende cura del bambino o che lo abusa, sia a livello fisico che psicologico) possono avere un ruolo importante nell’innescare il Disturbo Oppositivo Provocatorio.
Altri fattori di rischio sono: 

Fattori familiari:

-disturbi mentali presenti nei membri della famiglia,

-pratiche educative troppo rigide, o incoerenti o addirittura negligenti nei confronti del bambino,

-maltrattamenti,

-conflitti familiari.

Fattori cerebrali: diminuzione del volume e alterazione dell’attività di alcune aree del cervello deputate al controllo delle emozioni, pianificazione, motivazione (corteccia prefrontale, amigdala, insula).

Sono considerati, invece, fattori di protezione una buona qualità delle relazioni affettive con le figure che si occupano del bambino e un’educazione familiare costante e che trasmette fiducia. 

Diagnosi

Per la diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio lo specialista raccoglie i sintomi e ne analizza l’intensità, la frequenza e la durata per escludere quei comportamenti che sono normali per l’età e lo sviluppo del bambino.

È importante poi escludere quelle condizioni che presentano manifestazioni simili al disturbo oppositivo provocatorio, come ad esempio:

  • Disturbo della condotta (che in alcuni insorge successivamente)
  • Disturbo da deficit di attenzione/iperattività (che può essere associato)
  • Disturbo del comportamento dirompente
  • Disturbo esplosivo intermittente
  • Disturbo dello sviluppo intellettivo
  • Disturbo del linguaggio
  • Fobia sociale

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola (teacher training) oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale (parent training) ed una terapia individuale con il bambino. Per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. 

Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;

Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi.

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva e adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre, si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). 

In particolare, tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento (Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazioni interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Riflessioni importanti:

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine, si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Bibliografia

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L’elevata sensibilità o ipersensibilità

L' elevata sensibilità o ipersensibilità

Le persone Altamente Sensibili, definite PAS, sono dotate di un’emotività più sviluppata. Ciò è dovuto a un tratto della personalità che porta queste persone a una elaborazione più profonda e ad una maggiore reattività emotiva.

L’ alta sensibilità è una caratteristica innata e non è un disturbo; infatti, con le dovute attenzioni, rappresenta una via preferenziale per lo sviluppo di una maggiore autoconsapevolezza e apertura verso gli altri. Occorre, inoltre sottolineare che, l’alta sensibilità differisce dall’ipersensibilità, la quale invece riflette una condizione di fragilità emotiva. Pertanto, non è detto che le persone altamente sensibili siano per forza ipersensibili. 

L’ alta sensibilità incide sulla percezione degli stimoli e sul modo di rispondere ad essi, a livello di stati interiori e relazioni interpersonali. Le persone altamente sensibili tendono ad essere più riflessive, ponderate e sensibili nel rilevare gli stimoli ambientali, motivo per cui spesso riportano maggiore stress e sensibilità agli stimoli.

La ricerca ha individuato alcune principali caratteristiche degli individui altamente sensibili, tra le quali:

  • Profondità di elaborazione degli stimoli e quindi elevata attenzione ai dettagli;
  • Overstimolazione del sistema nervoso dovuto a una minore tendenza a filtrare gli stimoli in entrata;
  • Intuizione, dovuta a una capacità di rilevare facilmente gli elementi che li circondano;
  • Empatia e reattività emotiva.

Da qui, discendono alcuni dei comportamenti più frequenti, e a volte motivo di difficoltà, nelle persone con elevata sensibilità, come ad esempio: 

  • Reazione eccessiva agli stimoli;
  • Comportamenti impulsivi;
  • Vulnerabilità alle opinioni altrui.

Come posso fare per gestire l’alta sensibilità?

In alcuni casi, la SPS può aumentare il rischio di disturbi psicosomatici, ansiosi e dell’umore.

La persona con alta sensibilità dovrà imparare a utilizzare alcune accortezze, come:

  • riconoscere e gestire le emozioni quando queste si fanno troppo intense;
  • fare uno sforzo per discernere le situazioni e le relative reazioni appropriate;
  • distogliere la propria attenzione dal pensiero riguardante il giudizio degli altri;
  • evitare di rimuginare su pensieri negativi;
  • mantenere un buon livello di serenità ed equilibrio interiori.

In questa direzione, è a volte fondamentale affidarsi a uno psicologo che supporti la persona nel gestire gli aspetti sopra menzionati e in generale il proprio benessere personale.

Dott.ssa Diana Mabilia

Psicologa del lavoro

BIBLIOGRAFIA

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Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): prima parte

Il Disturbo oppositivo provocatorio (DOP): prima parte

Ben ritrovato, come per il disturbo della condotta anche questa volta ti presenterò inizialmente quelli che sono le caratteristiche cardine del disturbo oppositivo provocatorio e poi anche le informazioni inerenti sul trattamento.

Il disturbo oppositivo provocatorio rientra nella categoria dei Disturbi da Comportamento Dirompente, del Controllo degli Impulsi e della Condotta, caratterizzati da condizioni che implicano problemi di autocontrollo delle proprie emozioni e dei comportamenti. In tali disturbi i problemi descritti si esprimono attraverso comportamenti che violano i diritti altrui, come nel caso di aggressioni, distruzione della proprietà, o che pongono la persona in netto contrasto con le norme sociali o con figure che rappresentano l’autorità.

Nel disturbo oppositivo provocatorio prevalgono emozioni quali la rabbia e l’irritazione, unitamente a comportamenti di polemica e sfida.

La prevalenza del disturbo varia tra l’1 e l’11%, con una stima media del 3.3% circa. L’incidenza può subire variazioni a seconda dell’età e del genere del bambino. Nelle fasce di età precedenti all’adolescenza, il disturbo sembra presentarsi con più frequenza nei maschi, piuttosto che nelle femmine (1.4:1), tale predominanza maschile non è, tuttavia, sempre riscontrata nella fascia adolescente e adulta.

La frequenza del disturbo oppositivo provocatorio risulta maggiore nelle famiglie in cui un genitore presenta un disturbo antisociale ed è più comune nei figli di genitori biologici con dipendenze da alcool, disturbi dell’umore, schizofrenia, o di genitori con una storia di disturbo da deficit di attenzione e iperattività o di disturbo della condotta.

Il disturbo oppositivo provocatorio si caratterizza per la presenza frequente e persistente di umore collerico/irritabile (va spesso in collera, è spesso permaloso o contrariato, è spesso adirato e risentito), comportamento polemico/provocatorio (litiga spesso con persone che rappresentano l’autorità, sfida spesso apertamente o rifiuta di rispettare le regole, irrita deliberatamente gli altri, accusa gli altri per i propri errori), vendicatività. Tali sintomi devono presentarsi nell’interagire con almeno una persona diversa da un fratello e sono, spesso, parte di modalità di interazione problematiche con gli altri.

Esordio e decorso del disturbo oppositivo provocatorio

La comparsa dei primi sintomi si verifica prevalentemente in età prescolare e raramente oltre la prima adolescenza; un esordio dopo i sedici anni è molto raro in entrambi i sessi (Kazdin, 1997). Spesso il disturbo precede lo sviluppo di un Disturbo della Condotta; si associa, inoltre, al disturbo oppositivo provocatorio il rischio di sviluppare disturbi d’ansia, disturbo depressivo, pur in assenza di un disturbo della condotta.

È improbabile che i bambini che non hanno mostrato comportamenti aggressivi nella prima infanzia sviluppino livelli elevati di aggressività nelle età successive (Shaw, Gilliom & Giovannelli, 2000).

Ora non ti resta che aspettare la seconda parte dell’articolo per scoprire il resto delle informazioni utili per questo disturbo.

Dott.ssa Gazzi Mara

Bibliografia

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  • Ghosh A. et al, Oppositional defiant disorder: current insight. Psychol Res Behav Manag. 2017; 10: 353-367
  • Lavigne JV. et al, Treating Oppositional Defiant Disorder in Primary Care: A Comparison of Three Models. Journal of Pediatric Psychology. 2008; 33: 449-461
  • Schoorl J. et al, Emotion Regulation Difficulties in Boys with Oppositional Defiant Disorder/Conduct Disorder and the Relation with Comorbid Autism Traits and Attention Deficit Traits. PloS One. 2016; 11(7).
SOLO LE FEMMINUCCE PIANGONO? È ORA DI ABBATTERE GLI STEREOTIPI SULLA TRISTEZZA

SOLO LE FEMMINUCCE PIANGONO? È ORA DI ABBATTERE GLI STEREOTIPI SULLA TRISTEZZA

Essere tristi è necessariamente qualcosa di negativo?

In realtà no. Provare tristezza è una reazione sana ed adattiva che sperimentiamo quando ci imbattiamo in una delusione, in una separazione o perdita oppure in una qualsiasi esperienza negativa e spiacevole che ci lascia una sensazione di vuoto interiore. 

Mi raccomando, non svalutate il pianto e soprattutto non commettete l’errore di dire ai vostri figli maschi “Ma dai smettila, solo le femminucce piangono!”. Piangere è il nostro modo naturale di reagire ad eventi dolorosi che ci provocano sofferenza.

Primo consiglio: se notate che i vostri bambini sono tristi, dovete cercare in tutti i modi di farli parlare. È importante che abbiano una persona di fiducia con cui confidarsi: non devono essere per forza i genitori, ma può essere un insegnante, un amico, i fratelli, gli zii, ecc. Il messaggio da far passare è che non c’è nulla di male a sentirsi tristi ogni tanto, che capita a tutti noi di avere delle giornate in cui ci sentiamo giù (adulti compresi), fornendo loro degli esempi concreti. Fondamentale focalizzarsi sul fatto che questo stato di tristezza passa, anche se ognuno ha i suoi tempi; non possiamo sapere con esattezza quanto durerà il dolore, ma sappiamo con certezza che prima o poi cesserà. Ecco che entrate in gioco voi, attraverso queste pratiche.

Sfruttate l’arma del gioco: attraverso la loro fervida creatività, saranno in grado di inscenare le situazioni che hanno destato tristezza, trovando anche in maniera autonoma la soluzione più adatta nel caso in cui dovessero imbattersi nuovamente. Oppure spronateli a fare un disegno in cui possano scaricare tutti i pensieri tristi che invadono le loro menti. Ad esempio, disegnate una mano in cui, su ogni dito, i ragazzi possono scrivere le persone che li aiutano ad alleviare la tristezza, oppure le cose che potrebbero fare per distrarsi e tirarsi su di morale quando ne sentono il bisogno.

Cercate, inoltre, di distrarli coinvolgendoli in attività piacevoli o uscendo anche solo per una semplice passeggiata al parco: incontrare gli amichetti può fungere da rimedio naturale contro la tristezza, scacciandola via! Il nostro corpo, infatti, produce le cosiddette endorfine, conosciute da tutti noi con il nome di “ormone della felicità”.

Ultimo step, ma non per importanza: il ruolo dei pensieri. Avere pensieri pessimistici e negativi può indurre nei bambini uno stato di tristezza. È fondamentale che anche voi genitori cerchiate di aiutarli a cambiare visione di fronte alle situazioni spiacevoli, in modo da farli uscire dal circolo vizioso del “Mi va sempre tutto storto”, in favore di un pensiero più realistico e positivo come “Ogni tanto qualcosa può andar male, ma ci sono molte altre cose che vanno bene”.

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

BIBLIOGRAFIA

  • Di Pietro Mario (2014). “L’ABC delle mie emozioni”. Trento, Erickson.
EMPOWERMENT: IL POTERE DI AGIRE SULLA NOSTRA VITA.

EMPOWERMENT: IL POTERE DI AGIRE SULLA NOSTRA VITA

Il concetto di empowerment

L’Empowerment è un processo attraverso il quale ciascuno di noi prova un senso di controllo sulla propria vita grazie al fatto di prendere delle decisioni che siano consapevoli (se hai letto l’altro mio articolo sai di cosa parlo). Acquisire “potere” rappresenta il processo attraverso il quale siamo portati ad assumerci le nostre responsabilità attraverso lo sviluppo di capacità che danno accesso ad opportunità prima impensate; diventare autoefficaci ovvero essere capaci di dominare specifiche abilità. 

Rappaport introduce il concetto di empowerment in psicologia di comunità, come concetto che dà alla disciplina una prospettiva “forte” di contro ad una “debole”, in quanto concentra l’attenzione sulle qualità positive e sulle risorse delle persone, e non su quanto vi è in loro di sbagliato e di mancante. Operare attraverso il concetto di empowerment significa: “identificare, facilitare, creare contesti in cui i soggetti altrove isolati e senza voce, per vari motivi marginali (outsiders), ed anche organizzazioni e comunità, riescano a trovare voce, ad ottenere riconoscimento e possibilità di influenza sulle decisioni che riguardano la propria vita. L’empowerment concerne per definizione coloro che sono esclusi dalla maggioranza.”

Se portiamo questo concetto all’interno del processo di cura, procedere con interventi di empowering significa, dunque, non “curare” qualcosa che è visto come malattia, ma piuttosto attivare risorse e competenze, accrescere nei soggetti individuali e collettivi la capacità di utilizzare le loro qualità positive e quanto il contesto offre a livello materiale e simbolico per agire sulle situazioni e per modificarle. 

Una delle caratteristiche dell’empowerment che trova d’accordo i diversi autori (Castro, Regenmortel, Vanhaecht, Sermeus, & Hecke, 2016) è che la partecipazione del paziente è l’elemento focale di questo cambiamento.

Tritter (2009) identifica cinque diversi livelli di partecipazione del paziente: 

(1) partecipazione del paziente a decisioni riguardanti il trattamento; 

(2) il paziente può essere coinvolto nello sviluppo dei servizi; 

(3) può integrare con la sua prospettiva le valutazioni dei servizi; 

(4) può partecipare al training e alla formazione;

(5) può decidere di partecipare in modo attivo alle attività di ricerca proposte nell’istituto.

La partecipazione dei pazienti è inoltre caratterizzata da un coinvolgimento maggiore nel processo decisionale alla loro cura a loro prescritta. Le decisioni possono riguardare, nello specifico, la propria condizione di malato e quindi i trattamenti da seguire (processo che si svolge anche attraverso il consenso informato) o anche decisioni riguardanti il possibile sviluppo del servizio. La partecipazione del paziente al processo decisionale potrebbe portare ad un impegno attivo (Castro et al., 2016). Un ruolo più attivo del paziente richiede un duplice impegno, sia da parte del paziente che da quella dei professionisti della salute.

Prova a pensare, se sapere cosa ti aspetta lungo una terapia e sapere per quale obiettivo stai lavorando ti aiuta a sentirti più “padrone” della tua vita e dello sforzo che stai affrontando nel percorso di cura, prova a immaginare quanto importante sia questo processo per i ragazzi. Sentirsi ascoltati nell’esprimere le proprie difficoltà permette di ridurre il loro senso di confusione così come ricevere informazioni chiare e coerenti sul proprio trattamento permette loro di assumere un ruolo fondamentale. 

Spero che questo breve articolo ti possa essere utile per capire che all’interno del processo di cura, affinché tutto vada per il meglio, è necessario che tutti mettano al centro il proprio potenziale e diventino capaci di affrontare le sfide che il percorso rivelerà.

Dott.ssa Veronica Griguoli

BIBLIOGRAFIA

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  • Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/2018/10/empowerment-paziente/
Il ruolo delle funzioni esecutive: la memoria di lavoro

Il ruolo delle funzioni esecutive: la memoria di lavoro

Dopo aver parlato di attenzione, eccoci oggi ad introdurre il tema della memoria di lavoro, una sorta di “block notes mentale” che svolge un ruolo chiave nella vita di tutti i giorni e soprattutto nell’apprendimento.

Nell’andare a scoprire in cosa consiste questo sistema complesso, andiamo per piccoli passi ed iniziamo a capire bene il funzionamento generale del processo mnestico.

La memoria è definibile come la capacità di un organismo vivente di conservare nel tempo le informazioni apprese e di recuperarle in funzione delle esigenze individuali ed ambientali. Si configura come un processo dinamico di codifica, ritenzione e recupero che richiede un’elaborazione attiva dei dati esperienziali e non una ricezione passiva di essi.

Data la natura multi-sistemica della memoria, è più corretto parlare di memorie in quanto essa al suo interno raccoglie un insieme di processi.

È possibile innanzitutto distinguere due grandi magazzini: 

  • Memoria a breve termine (MBT), un sistema capace di immagazzinare per brevi periodi di tempo (circa 30 sec) un numero limitato di informazioni; 

Memoria a lungo termine (MLT), un sistema capace di immagazzinare per periodi illimitati di tempo un numero illimitato di informazioni, che vengono processate, attivate e ed elaborate.

Un contributo importante alla formulazione del costrutto di memoria è quello dato dal modello proposto da Baddeley e Hitch (1974) i quali hanno introdotto il concetto di Memoria di Lavoro (“working memory”) per descrivere in maniera più accurata il funzionamento della MBT.
Secondo la loro teoria, la memoria di lavoro rappresenta un sistema per il mantenimento temporaneo e per la successiva manipolazione delle informazioni di natura verbale, visiva e spaziale, affinché siano rese disponibili per essere utilizzate in compiti cognitivi più complessi quali ad esempio il pensiero e il ragionamento; la memoria di lavoro non è  quindi considerata come un mero magazzino di passaggio verso la memoria a lungo termine (MLT).  

Dal punto di vista della formulazione teorica, tale sistema risulta costituito da differenti meccanismo mnestici: 

  • circuito fonologico (loop fonologico) che conserva l’informazione in forma verbale 
  • taccuino visuo-spaziale che codifica le informazioni spaziali e visive mantenendo le informazioni relative a colori e forme e le informazioni relative a spazio e movimenti.
  • un sistema di elaborazione centrale (esecutivo centrale) il cui compito è, similmente all’attenzione, quello integrare tra loro le varie informazioni, coordinare il funzionamento dei due precedenti meccanismi e gestire le risorse attentive. 

Dal punto di vista operativo, all’interno di un percorso di potenziamento della memoria di lavoro, distinguiamo training per la memoria di lavoro visiva e spaziale e training per la memoria di lavoro verbale. 

Per lavorare sulla memoria visuo-spaziale utili possono essere utili le attività con le matrici aumentando la dimensioni e il grado di difficoltà via via che si notano progressi nella prestazione del bambino. Si possono quindi predisporre su un foglio delle griglie/matrici di dimensione 2×2, 3×3, 4×4, a seconda della difficoltà, in cui posizionare uno o più stimoli (immagini, colori, lettere, numeri) e procedere con differenti modalità di esecuzione.

Per lavorare invece sulla memoria verbale possono essere utili gli esercizi di span numerico o verbale che consistono nel presentare al bambino una lista di numeri o parole che dovranno essere ricordati nell’ordine di presentazione (span diretto) o nell’ordine inverso (span inverso). Il numero di elementi da ricordare dovrà essere precedentemente specificato al bambino e via via che si riscontrano progressi può essere aumentato. Altrettanto utili possono essere gli esercizi di listening span in cui si richiede di memorizzare l’ultima parola di una serie di frasi che devono essere elaborate dal punto di vista del significato e rispetto alle quali va poi indicato se sono vere o false.


Mi rendo conto che provare a spiegarti in poche righe di un articolo le diverse attività che proponiamo ai bambini durante i nostri incontri è un’ardua impresa, e risulta troppo riduttivo. Per questo ti invito a seguirci sui nostri canali social, nelle prossime settimane ti faremo sbirciare qualche stralcio di attività svolto in seduta così da poter capire meglio come può essere allenata la memoria di lavoro, e non solo. 

Non dimenticare di seguire anche la rubrica “AllenaMente” per entrare nel fantastico mondo dei giochi in scatola come strumento di divertimento e potenziamento; scoprirai che oltre al conosciuto gioco del “Memory” esistono un’infinità di altri giochi mirati ad allenare il nostro “block notes mentale”.

Dott.ssa Levorato Benedetta

Psicologa dell’età evolutiva



Bibliografia:

  • Benso F. (2004),Neuropsicologia dell’attenzione: Teoria e trattamenti nei disturbi dell’apprendimento, Pisa, Dal Cerro
  • Baddley A. D. (1986), Working Memory, Oxford, Clarendon Press
  • Marotta L. e Varvara P. (2013), Funzioni esecutive nei DSA – Disturbo di Lettura: Valutazione e Intervento, Trento, Edizioni Erickson, pp. 38-48 e 115-123.
La felicità sta nelle piccole cose

La felicità sta nelle piccole cose

Come fate ad accorgervi che i vostri bimbi o ragazzi sono felici? Probabilmente noterete che stanno sorridendo, oppure fanno salti di gioia per esternalizzare questa contentezza che sentono dentro, sprigionandola all’esterno. 

Ma cosa li rende felici? Ricordiamoci che non serve comprare loro l’ultimo modello di cellulare oppure il nuovissimo gioco appena uscito per conquistare la loro felicità, ma spesso bastano solo piccoli e semplici gesti come: fare un complimento, mangiare un gelato insieme, andare al parco con gli amichetti, coccolare il proprio animaletto, fare un bel disegno da regalare a qualcuno di speciale e così via. Almeno un pizzico di felicità dobbiamo poterla sperimentare ogni giorno della nostra vita, anche durante quelle giornate in cui tutto sembra andar storto. La sfida di noi adulti deve essere quella di far scovare anche la minima briciola a cui appigliarsi per stravolgere la giornata!

Ricordare qualcosa di bello accaduto nel passato può migliorare lo stato d’animo dei nostri bimbi quando si sentono un po’ giù. Se in autonomia non sono in grado di farlo, magari perché ancora troppo piccoli, aiutateli voi a rievocare episodi in cui avevano sperimentato gioia per strappare loro un sorriso. Teniamo sempre a mente quanto è incisivo il ruolo dei pensieri!

La felicità, inoltre, spesso è contagiosa, proprio come accade quando sbadigliamo! Realizzare un contesto positivo (mi riferisco soprattutto alle classi in cui passano molte ore al giorno) può essere il luogo ideale in cui i nostri ragazzi possono sentirsi a loro agio e provare contentezza, affrontando anche le sfide imposte dall’apprendimento in maniera più serena. Ecco, quindi, che ora mi rivolgo anche ai voi insegnanti, che avete il ruolo fondamentale di ricreare uno spazio in cui far regnare la felicità!

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

Bibliografia

  • Di Pietro Mario (2014). “L’ABC delle mie emozioni”. Trento, Erickson.
Chi è il CAREGIVING familiare?

Chi è il CAREGIVING familiare?

l termine “caregiver“ si riferisce a tutti i familiari “che si prendono cura” di un loro familiare ammalato.
La maggior parte dei “caregiver” assistono familiari con demenza e sono prevalentemente donne. Il resto è rappresentato ad esempio dai genitori di figli con disabilità, da mariti e mogli che assistono il proprio partner, etc. nelle attività che riguardano la mobilizzazione, l’alimentazione e l’igiene, la rilevazione di eventuali stati di malessere e la somministrazione di farmaci.

Caregiving stress:

L’attività di assistenza rappresenta un impegno importante a livello di gestione organizzativa ma anche di vissuti emotivi, che a loro volta impattano a livello psicofisico su diverse sfere della vita.

Gli stati d’animo più spesso riportati dai caregiver includono:

  • rabbia, legata a stanchezza psicofisica, senso di ingiustizia, impotenza e in alcuni casi timore di compiere atti aggressivi 
  • senso di colpa e di inutilità
  • tristezza legata alla perdita della condizione di salute, riduzione degli obiettivi e del senso di progettualità
  • vergogna, legata ad esempio al giudicarsi non all’altezza del compito di assistenza
  • invidia nel confronto con altre persone e famiglie.

L’entità dell’impegno legato al caregiving dipende dal numero di ore dedicate alla cura, tipo di invalidità, presenza di una rete di supporto e dalle capacità relazionali del caregiver stesso.
Il caregiver necessita di attenzione e supporto in quanto esposto a una condizione di rischio di disagio psicofisico. Il “lavoro” di assistenza, infatti, impatta direttamente sul funzionamento quotidiano del caregiver (stanchezza, ansia, disturbi psicosomatici, etc.) anche in termini di assunzione di un’alimentazione scorretta, sedentarietà, rinuncia alla propria vita sociale e, in generale, scarsa attenzione al proprio stato di salute. Tale situazione di malessere porta talvolta il caregiver a desiderare di sottrarsi alla condizione di assistenza del familiare ammalato, pensiero che a sua volta lo conduce a sperimentare sensi di colpa nei confronti del proprio caro.

Sindrome del burnden

La condizione di stress, o burden, del caregiver può portare quest’ultimo a uno stato di esaurimento psicofisico che si caratterizza per un vissuto di disagio psicologico, dovuto all’intreccio tra carico oggettivo (ore di assistenza, entità della malattia e del supporto necessario..) e soggettivo (vissuto di inadeguatezza, senso di privazione dei propri spazi, apatia…), legati all’attività di assistenza. Lo stress cronico può a sua volta incidere negativamente sul funzionamento del sistema immunitario e sullo sviluppo di sintomi psichici come ansia e depressione, con un generale peggioramento del benessere e della qualità di vita, fino a rendere necessario per il caregiver ricorrere a terapie mediche e/o psicoterapeutiche.

Come gestire il burden?

Diversi studi scientifici hanno evidenziato la presenza di condizioni protettive nei confronti del burden.
Tra queste, l’autoefficacia percepita nello svolgimento del proprio ruolo di assistenza e la capacità di resilienza utile a tollerare l’evento di malattia. Inoltre, è importante per il caregiver poter fare affidamento a una buona rete di supporto sociale e l’essere in possesso di adeguate abilità sociali. 

Per prevenire stati di stress elevati, il caregiver stesso può adottare strategie “preventive”. Tra queste, prendere consapevolezza di pensieri, emozioni e sensazioni di disagio che lo pervadono, prestare attenzione alla cura di sé e della propria salute, prendersi dei momenti di pausa per ricaricare le energie, curare le relazioni sociali e chiedere supporto in caso di necessità.

In tale direzione, è quindi importante imparare a gestire il proprio grado di stress, ad esempio prendendosi cura dei propri bisogni, svolgendo un’adeguata attività sociale, coltivando i propri interessi, svolgendo attività fisica e dedicandosi ad attività rilassanti.

Nel caso in cui le strategie di fronteggiamento individuali non risultino sufficienti al caregiver per fronteggiare il proprio stato di malessere, può rendersi necessario chiedere aiuto a un professionista della salute mentale. Studi scientifici indicano, infatti, che un percorso psicoterapeutico può favorire un migliore grado di regolazione emotiva e quindi fornire un supporto al benessere psicofisico del caregiver.

Diana Mabilia

Bibliografia:

  • Schulz, R., & Martire, L. M. (2004). Family caregiving of persons with dementia: prevalence, health effects, and support strategies. The American journal of geriatric psychiatry, 12(3), 240-249.
  • Ory, M. G., Hoffman III, R. R., Yee, J. L., Tennstedt, S., & Schulz, R. (1999). Prevalence and impact of caregiving: A detailed comparison between dementia and nondementia caregivers. The Gerontologist, 39(2), 177-186.
  • Tremont, G. (2011). Family caregiving in dementia. Medicine and Health, Rhode Island, 94(2), 36. Adelman, R. D., Tmanova, L. L., Delgado, D., Dion, S., & Lachs, M. S. (2014). Caregiver burden: a clinical review. Jama, 311(10), 1052-1060.
  • Isa, S. N. I., Ishak, I., Ab Rahman, A., Saat, N. Z. M., Din, N. C., Lubis, S. H., & Ismail, M. F. M. (2016). Health and quality of life among the caregivers of children with disabilities: A review of literature. Asian journal of psychiatry, 23, 71-77.
EDUCARE ALLA DIVERSITA’

Educare alla diversità

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un cambiamento di valori, di educazione, di bisogni. Le vite troppo frenetiche non lasciano spazio alle piccole cose, non ci permettono di osservare attentamente, non ci permettono di soffermarci ed ascoltarci. Chi sta soffrendo di più di tutta questa frenesia sono sicuramente i bambini: non hanno più la possibilità di fare i bambini, non possono più avere il loro tempo perché vengono considerati già adulti in miniatura, non hanno più la possibilità di imparare lentamente perché a 6 anni devono tassativamente leggere, scrivere, contare. Non hanno neanche più la possibilità di pensare, di vivere le esperienze con il corpo, di poter stare sdraiati senza fare nulla. 

Un tema che a me sta tanto a cuore è quello della diversità, intesa come caratteristiche che ogni persona, ogni bambino ha dentro di sé. Alla fine siamo tutti diversi, la diversità fa parte della natura.

Quindi se siamo tutti diversi, con bisogni diversi, con potenzialità diverse, perché pretendiamo che i bambini siano tutti uguali? Perchè pretendiamo che tutti i bambini apprendano nello stesso modo? Perché pretendiamo che i bambini abbiano tutti gli stessi tempi?

C’è bisogno di ritornare alla lentezza, all’attenzione ai piccoli dettagli, alla voglia della scoperta. 

Come fare? Educando alla diversità. 

Educare alla diversità significa avere rispetto: rispetto per i tempi, rispetto per le attitudini, rispetto per ciò che ogni bambino è, rispetto delle caratteristiche sensoriali individuali, rispetto per le capacità, rispetto per i traguardi. 

Educare alla diversità significa accogliere: accogliere i momenti bui e trasformarli in forza, accogliere ciò che il bambino ci offre in quel momento, accogliere i suoi stati d’animo, accogliere e non giudicare, accogliere e non fare paragone. 

Educare alla diversità significa anche essere esempi: esempi di forza, esempi di rispetto, esempi di non giudizio. Perché nel 2023 non possiamo permettere di essere discriminati per il nostro pensiero, per il nostro orientamento sessuale, per il nostro credo, perché vogliamo che vengano rispettati i diritti di ogni persona. 

Educare alla diversità significa rispondere alle domande: i bambini sono curiosi e fanno mille domande, rispondere con il giusto tono e le giuste parole non crea il tabù, non crea la fissazione. E un bambino curioso è un bambino intelligente che vuole scoprire, quindi rispondere vuol dire aiutarlo in questo, aiutarlo nella riflessione. 

Educare è importante, perché è l’arma più potente che abbiamo per poter cambiare il mondo. E il mondo lo si cambia dai bambini.

Dott.ssa Laura Garrone

Pedagogista clinico, psicomotricista funzionale, neuropedagogista e terapista Dirfloortime