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Il lavoro e il suo stress

Il lavoro e il suo stress

Le caratteristiche dell’ambiente di lavoro, e anche l’attuale precarietà del mondo del lavoro stesso, possono portare l’individuo a sviluppare disagi di natura psico-sociale, come lo stress lavoro correlato e il burnout.

Lo stress correlato al lavoro:

Ogni attività lavorativa presenta una componente di stress legate a un carico di lavoro eccessivo e alla necessità di fare fronte a imprevisti e richieste a volte poco prevedibili. Lo stress lavoro correlato spesso deriva da un eccesso dei carichi di lavoro, habitat lavorativo non adeguato, relazioni interpersonali conflittuali. Lo stress lavoro correlato esercita inoltre dirette conseguenze sulla performance lavorativa, fino a manifestarsi nei termini di errori sul lavoro, infortuni, conflitti con i colleghi, prolungate assenze e dimissioni del lavoratore. Le conseguenze si evidenziano anche per l’azienda, che vede diminuire la qualità dei prodotti e servizi da essa stessa offerti.
In Europa si stima che un lavoratore su quattro sia affetto da stress lavoro correlato.
Lo stress, a piccole dosi, può costituire elemento motivazionale che permette al lavoratore di impegnarsi nello svolgimento delle sue mansioni e quindi potenziare le prestazioni individuali e il rendimento per l’azienda. I problemi nascono quando lo stress è troppo elevato o duraturo, con ripercussioni psicofisiche che diventano sempre meno gestibili da parte della persona. In tal caso lo stress è descrivibile come sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste esterne o di non trarre gratificazione dai propri sforzi. È così che l’individuo inizia a soffrirne e ad avvertire che il problema influisce sul versante psichico, sociale e somatico. Sensazione di stanchezza, ridotta tolleranza degli stati emotivi negativi, tono dell’umore basso, alterazioni della fame e del sonno, ritiro sociale e a volte variazioni nel consumo di alcol e fumo sono alcuni degli indicatori di tale stato.

Stress e burnout: sintomi simili per problemi diversi.

Lo stress lavorativo è una condizione che può condurre a sua volta alla sindrome del burn-out. Il burnout è identificabile come una sindrome da esaurimento emotivo che alla condizione di stress aggiunge la componente relazionale.
In particolare, il burnout alcuni elementi cardine:
• esaurimento delle risorse e dell’energia necessarie per affrontare il lavoro quotidiano;
• distacco mentale dalle persone e dalle attività che riguardano l’ambiente lavorativo;
• vissuto di inadeguatezza e sensazione di sovraccarico in termini di richieste di lavoro.
Tra le cause, è possibile individuare la presenza di elevata richiesta lavorativa, scarsa libertà decisionale, inadeguato supporto sociale, a cui si aggiungerebbero caratteristiche personali di eccessiva responsabilizzazione di sè.

Chi è maggiormente colpito da burnout?

Il burn out può colpire persone che svolgono tutte le professioni, anche se sembra presentarsi più di frequente nei lavori che prevedono un contatto relazionale connotato da forte coinvolgimento emotivo (ad esempio: professioni sanitarie, forze dell’ordine, insegnanti..).

Come prevenire stress lavorativo e burnout?

I consigli di buonsenso ricordano alle persone che è possibile cercare di prevenire stress e burnout prendendosi degli spazi per curare il proprio benessere psicofisico, per dedicarsi a degli hobby, condurre uno stile di vita sano, mantenere una vita sociale attiva. In alcuni casi tali strategie non si rivelano sufficienti e a quel punto può essere necessario rivolgersi a uno psicoterapeuta. La persona colpita da stress e burnout può infatti vedere peggiorare la propria situazione sotto l’aspetto emotivo, relazionale, fino a sviluppare disturbi psicopatologici conclamati.

La psicoterapia concede uno spazio di espressione del proprio malessere e consente di adottare una prospettiva maggiormente ampia, tesa a individuare e contrastare le ripercussioni che il burnout può esercitare a livello individuale, relazionale e ovviamente lavorativo.

Diana Mabilia

Psicoterapeuta e Psicologa del lavoro

Bibliografia

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  • Guglielmi, D., Depolo, M., Simbula, S., & Paplomatas, A. (2011). Prevenzione dello stress lavoro correlato: validazione di uno strumento per la valutazione dei rischi psicosociali nella scuola. Prevenzione dello stress lavoro correlato: validazione di uno strumento per la valutazione dei rischi psicosociali nella scuola, 53-74.
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  • Winnubst, J. (2017). Organizational structure, social support, and burnout. In Professional burnout (pp. 151-162). Routledge.
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  • Marc, C., & Osvat, C. (2013). Stress and burnout among social workers. Revista de Asistenta Sociala,
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Otiti ricorrenti nei bambini

Otite media ricorrente nel bambino

L’Otite ricorrente è una condizione infiammatoria dell’età pediatrica e colpisce i bambini solitamente tra i 6 mesi e i 6 anni. Viene definita otite media in quanto coinvolge la parte mediana dell’orecchio collocata subito dietro il timpano e ricorrente perché in circa un terzo dei piccoli pazienti che accusano questo disturbo, vi è una significativa ricorrenza degli episodi.

L’otite è molto comune nei bambini in quanto il sistema immunitario non ancora completamente sviluppato, gli stimoli ambientali del periodo (per esempio la scuola) e la struttura anatomica dell’orecchio in via di sviluppo (conformazione della tuba di Eustachio) favoriscono una maggiore trasmissione di virus e batteri e quindi una maggiore possibilità di sviluppo di infiammazione. 

Considerando l’anatomia si evidenzia come nel bambino le tuba di Eustachio ha uno sviluppo più corto ed orizzontale rispetto all’adulto, in cui la tuba definitiva dopo il completo sviluppo del massiccio facciale risulta essere più lunga e a decorso più verticale. In età pediatrica queste caratteristiche possono agevolare i batteri e i virus presenti nella gola e nel naso a raggiungere più velocemente l’orecchio andando a ridurre verso la faringe e favorendo il passaggio di agenti infettivi nel cavo del timpano.

La tuba di Eustachio permette il collegamento tra l’orecchio medio e la faringe svolgendo nel nostro corpo varie funzioni: il corretto drenaggio del muco e dei fluidi dall’orecchio medio, impedisce il reflusso in senso contrario dal rinofaringe ed equilibra le pressioni dell’orecchio interno con la pressione atmosferica contribuendo alla trasmissione delle onde sonore.

Detto ciò la sintomatologia riferibile ad un quadro di otite e che è basata solitamente sull’osservazione del piccolo Paziente è riconducibile ai momenti in cui il bimbo ad esempio si tira l’orecchio, si lamenta e piange, ha il sonno disturbato, presenta febbre e non reagisce a suoni normali.
L’inquadramento è di pertinenza del pediatra o dell’otorinolaringoiatra e per la diagnosi è utile la visualizzazione della membrana timpanica tramite l’esame otoscopico.
Nei bambini al di sotto dei 2 anni considerata la difficoltà nell’esecuzione dell’esame si ritiene che la diagnosi possa essere fatta in presenza di iperemia intensa, tensione della membrana timpanica e almeno uno dei sintomi di otite: dolore, febbre, vomito o diarrea.

Il trattamento medico tradizionale, secondo il giudizio del Pediatra di riferimento, è legato principalmente all’uso di antipiretici e antidolorifici per ridurre il dolore e abbassare la febbre causata dall’infezione acuta e, a seconda dei casi, di antibiotici per contrastare l’evoluzione dell’infezione.

L’Osteopatia in merito si è rivelata un trattamento molto efficace sia in fase acuta, come sostegno alla terapia convenzionale nella gestione dei tempi di convalescenza dell’infezione, sia in fase preventiva per ridurre la frequenza e l’intensità degli episodi di otite ricorrente.

La finalità del trattamento osteopatico è quella, dopo un’attenta valutazione del bimbo e nello specifico di tutta la mobilità in ambito cranico, di permettere un corretto drenaggio della tuba di Eustachio stimolando un’adeguata funzionalità locale e poi generale del sistema linfatico. Attraverso un approccio delicato e stimolante i processi innati di autoguarigione, l’Osteopatia permette di mantenere in equilibrio le tensioni che si possono creare a livello del viso, del tratto cervicale, del collo e del torace.

Attraverso il trattamento osteopatico si potranno quindi far emergere più competenze e capacità di adattamento agli stimoli ambientali andando a sostenere e rafforzare il sistema immunitario nel suo complesso, avendo quindi maggiori possibilità nell’evitare la ricorrenza dell’infiammazione.

Andrea Viale DO mROI – Osteopata

Aiuto, non riesco a decifrarla! Una guida pratica su come leggere una relazione

Aiuto, non riesco a decifrarla! Una guida pratica su come leggere una relazione

Ora mi rivolgo a voi: immagino vi sia capitato più volte di ritrovarvi in mano una relazione clinica effettuata da un professionista in cui compaiono numeri, sigle e altre cose indecifrabili, che però non vi sono stati adeguatamente spiegati. Ecco, sono qui per darvi qualche piccolo suggerimento su come interpretare una relazione, in particolar modo quelle riguardanti i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).

Cosa sono le deviazioni standard?

Le deviazioni standard, abbreviate con la sigla DS, indicano quanto il punteggio ottenuto dai vostri figli si discosta dalla media della popolazione di riferimento su cui è stato standardizzato il test. Esiste un punteggio limite sotto al quale la prestazione risulta clinicamente significativa, cioè necessita di un intervento da parte di un professionista esperto. Mi riferisco alla soglia delle -2 deviazioni standard: quando leggete questo numero, preceduto anche dal simbolo “minore” (<-2DS), significa che la prestazione in quella prova è nettamente sotto la norma. 

Cosa sono i percentili?

I percentili, invece, permettono di posizionare la prestazione dei vostri figli in una sorta di scala che va da 0 a 100, in cui nel punto massimo abbiamo la migliore prestazione raggiungibile dalla maggior parte dei coetanei che hanno la stessa età e frequentano la stessa classe (cioè, hanno pari grado di scolarità). In questo caso, la soglia viene posta al 5° percentile: quando il punteggio si colloca al di sotto (<5° p.), è richiesto un intervento immediato. 

Cosa sono le fasce di prestazione?

Talvolta, vengono utilizzate delle sigle che corrispondono a determinate fasce di prestazione. Qui sotto vi lascio una piccola legenda, che potete tenere sottomano la prossima volta che vi cimentate nella lettura di una valutazione clinica degli apprendimenti scolastici.

  • PO = Prestazione Ottimale
  • CCR = Criterio Completamente Raggiunto
  • PS = Prestazione Sufficiente
  • RA = Richiesta di Attenzione
  • RII = Richiesta di Intervento Immediato

È la fascia RII a destare maggiore preoccupazione; infatti, in linea di massima, possiamo paragonarla proprio alle -2DS o al 5° percentile che abbiamo appena visto sopra.

Spero che questa rapida carrellata di numeri e sigle possa esservi utile per comprendere meglio i punteggi che i vostri ragazzi ottengono ai test diagnostici utilizzati durante le valutazioni. E ricordate…non abbiate paura a chiedere chiarimenti al professionista. Durante il colloquio di restituzione è suo dovere aiutarvi anche a decifrare questi dati. E se la questione non vi è ancora del tutto chiara, chiedetegli di ripetere nuovamente perché il professionista è lì a vostra disposizione anche per questo. Non dovete mai uscire dalla stanza senza aver chiarito tutti i vostri dubbi!

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

L’Osteopatia nella gestione della Malattia da Reflusso Gastro-Esofageo

L’Osteopatia nella gestione della Malattia da Reflusso Gastro-Esofageo

Il Reflusso Gastro-Esofageo (in inglese GERD, gastro-esophageal reflux disease) è la condizione clinica in cui vi è un’incapacità di gestione dei succhi acidi prodotti dallo stomaco, che risalgono lungo il tratto esofageo. E’ una condizione ad origine multifattoriale che colpisce un numero sempre più crescente di soggetti (4 milioni di Pazienti in Italia) ed è uno dei disturbi più comuni che i medici di base riscontrano nella loro pratica clinica quotidiana.

Caratterizzato dalla prolungata esposizione della mucosa esofagea ai succhi gastrici, il reflusso genera nel tempo infiammazione, erosione e nei casi più gravi ulcerazione con fibrosi della parte distale dell’esofago (esofago di Barrett). Quest’ultima forma è definita come una metaplasia cioè uno stadio pre-canceroso che se non curato adeguatamente potrebbe sviluppare la patologia più grave, il tumore o adenocarcinoma gastrico. 

I sintomi provocati dal reflusso gastro-esofageo sono svariati e spesso non sono facilmente riconoscibili, ma come esperienza principale vissuta dal Paziente vi è una sensazione di bruciore nella zona retrosternale che può irradiarsi in zona dorsale e salire sino alla mandibola. 

In aggiunta tra gli altri sintomi più o meno comuni riconducibili a questo stato infiammatorio possiamo evidenziare: difficoltà di deglutizione, mal di gola, dolore cervicale medio, perdita parziale o totale della voce, laringite, sinusite, asma, dolore sub-occipitale, difficoltà digestive o nausea, disturbi del sonno, senso di oppressione al torace, capogiri, tosse secca.

 

Essendo una problematica di origine multifattoriale le maggiori concause che portano a questa condizione sono: alimentazione poco salutare, obesità, stress psico-fisico, fumo di sigaretta, una pregressa condizione patologica di ernia iatale.

 

Tutto ciò porta ad una modifica funzionale anatomica della capacità contenitiva dello stomaco nei confronti dell’esofago che può cronicizzarsi e degenerare negli stadi descritti prima in quanto l’anatomia che compone l’area di giunzione tra gastro-esofagea va a cambiare la sua capacità elastica e contrattile.

La giunzione gastro-esofagea (cardias) è un complesso valvolare atto a prevenire la risalita dei succhi gastrici in esofago ed è composta principalmente da uno sfintere chiamato LES (Lower Esophageal Sphincter), collocato all’interno dello iato diaframmatico e circondato dalla componente fibrosa del diaframma stesso. Il reflusso gastrico è quindi impedito principalmente da tre componenti: un corretto angolo di inclinazione tra esofago e stomaco, la chiusura quasi totale del LES ad opera della muscolatura intrinseca, la pressione generata dalla giusta tensione del diaframma durante la respirazione (fase inspiratoria).

Il trattamento primario secondo la letteratura scientifica è identificato nell’approccio farmacologico attraverso la somministrazione di farmaci denominati inibitori di pompa protonica (tipo pantorc, pantopan, omeprazolo ecc..) ed in Italia questa classe di farmaci sono al secondo posto tra quelli più prescritti dai medici di base. In ogni caso questo approccio è esclusivamente sintomatico e richiede una continua somministrazione del farmaco innescando possibili effetti avversi per cui è necessario controllare il dosaggio e il tempo di esposizione. 

Le linee guida dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) prevedono infatti oltre alla terapia farmacologica iniziale l’adozione di una dieta equilibrata e il ricorso a terapie complementari come l’Osteopatia, la Psicoterapia e l’Agopuntura.

L’Osteopatia valuta le possibili cause del reflusso gastro- esofageo e dei disturbi del tratto di apparato digerente interessato dall’infiammazione, attraverso un approccio olistico al corpo e al suo funzionamento.

Nella valutazione osteopatica vengono analizzate le connessioni tra componente viscerale, struttura scheletrica e area neurologica deputata al controllo dell’organo, alla quale consegue l’intervento sulle cause prime del disturbo.

In particolare nei casi di reflusso l’osteopatia andrà ad indagare componenti disfunzionali relative al sistema neurovegetativo di competenza, area vertebrale dorsale e relazioni costali associate, diaframma toracico e relazioni delle pressioni tra i vari diaframmi corporei, area della base cranica e nervo vago, strutture viscerali (stomaco, esofago, duodeno,..), aree linfatiche e di connettivo connesse al GALT (sistema immunitario linfoide associato alla mucosa gastro-intestinale).

 

Trattare il reflusso gastro-esofageo con l’Osteopatia quindi significa fare in modo di ridurre le eventuali tensioni che si sono create a livello del cardias e dell’area circostanti, aiutando l’organismo a ritrovare l’equilibrio e la corretta motilità degli organi favorendo i meccanismi di autoguarigione ed autoregolazione.

Andrea Viale DO mROI

Bibliografia:

 

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  • An Alternative Approach to the Gastroesophageal Reflux Disease: Manual Techniques and Nutrition” Luca Collebrusco, Rita Lombardini, Giovanna Censi, Open Journal of Therapy and Rehabilitation, Vol.5 No.3, 2017
  • Osteopathic Manual Therapy and Management of Gastroesophageal Reflux Disease-GERD By Jocelyn Glover BSc.Kin, BSc.AHN, D.O.M.P Halifax Osteopathic Centre, 2018
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PEI – PDP: facciamo chiarezza con similitudini e differenze

PEI - PDP: facciamo chiarezza con similitudini e differenze

Oggi in questo articolo affronteremo uno degli elementi chiave su cui insegnanti, famiglie e professionisti si trovano a ragionare al fine di rendere il percorso scolastico degli alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) personalizzato con strategie individualizzate ed adeguate alle necessità e alle caratteristiche di ciascuno.

PEI e PDP sono entrambi documenti di programmazione che vanno redatti annualmente in presenza di alunni BES e DSA.

Più precisamente, il PEI Piano Educativo Individualizzatoviene redatto ad inizio anno scolastico ed è finalizzato a garantire l’integrazione scolastica degli alunni in presenza di certificazione di disabilità; in esso è descritta la programmazione delle attività e l’individuazione delle strategie e metodologie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi didattici ed educativi dell’alunno. 

Il PDP è, invece, il Piano Didattico Personalizzato, che permette di definire le strategie didattiche più efficaci per permettere all’alunno con diagnosi di DSA (Disturbo Specifico dell’Apprendimento) o BES non certificato di raggiungere gli obiettivi formativi, anche grazie agli strumenti compensativi e alle misure dispensative necessarie quando previste.

Fatta questa prima semplice distinzione, andiamo ora ad analizzarne brevemente similitudini e differenze attraverso alcune domande e risposte:

Quando è necessaria la compilazione?

Il PEI va compilato in presenza di alunni con disabilità certificata secondo la Legge 104/92.

Il PDP si compila quando a scuola siamo in presenza di:

  • Alunni con diagnosi certificata di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (dislessia, discalculia, disgrafia, disortografia) secondo la Legge 170/2010
  • Alunni non certificati con Bisogni Educativi Speciali di cui fanno parte gli alunni con iter diagnostico non ancora completato, alunni con svantaggio socio-economico o socio-culturale o alunni con fragilità di natura psicologica e/o comportamentale.

Sono documenti obbligatori?

Il PEI è sempre obbligatorio in presenza di alunni con disabilità certificata, in base alle L. 104/92 e al D.P.R. 24/2/94.

Il PDP è obbligatorio se siamo in presenza di una diagnosi di DSA certificata, in base alla Legge 170/2010 e alle Linee Guida del MIUR; al contrario, non è obbligatorio per gli alunni BES non certificati e/o per studenti in situazione di svantaggio; in questo ultimo caso gli insegnanti possono decidere se utilizzare e formalizzare o meno le strategie didattiche maggiormente funzionali per alunno attraverso la stesura del PDP.

Chi si occupa di redigere il PEI e il PDP?

Il PEI viene compilato dalla scuola in collaborazione con i servizi socio-sanitari competenti, gli eventuali professionisti privati che si occupano della presa in carico dell’alunno, avvalendosi anche della preziosa collaborazione della famiglia.

Il PDP è invece redatto dal consiglio di classe; per una formulazione personalizzata sulla base delle specificità dell’alunno è consigliabile, prima della stesura del documento, di prendere contatto con le figure professionali coinvolte per condividere suggerimenti e strategie operative. 

In quale momento dell’anno scolastico compilare PEI e PDP?

Il PEI viene redatto a inizio anno scolastico;

Il PDP dovrebbe essere redatto entro tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico ma, in caso di necessità, può essere compilato anche in periodi successivi. 

Quali sono i contenuti principali che devono essere presenti in tali documenti di programmazione?

Rispetto ai contenuti del PEI, non esiste un modello unico e la normativa ne stabilisce gli elementi essenziali quali gli obiettivi (didattici, educativi, di socializzazione); le metodologie di intervento unitamente alle strategie e agli strumenti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi, i criteri di valutazione. Oltre a questo, vanno riportati nel PEI anche gli interventi di natura extrascolastica concordate con i servizi socio-sanitari e con la famiglia.

Tra i contenuti chiave del PDP vi sono invece la descrizione del funzionamento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo che può essere desunta dalla diagnosi e/o dall’osservazione in classe; a tali elementi, desunti dalla diagnosi e/o dall’osservazione in classe, possono essere aggiunte tutte le altre caratteristiche, specifiche dell’alunno, che è necessario considerare ai fini di una programmazione didattica personalizzata. Il PDP deve poi contenere la programmazione delle attività didattiche comprensiva degli strumenti compensativi e delle misure dispensative da adottare, nonché i criteri di verifica e valutazione.

Chi firma il PEI e il PDP?

Il PEI deve essere firmato da tutti i soggetti che hanno partecipato alla sua stesura nell’ottica di una responsabilità condivisa e di un lavoro di rete tra scuola, servizi socio-sanitari e famiglia.

Il PDP è firmato dal dirigente scolastico, dai docenti e dalle famiglie.

Al termine di questo articolo mi auguro di essere riuscita nel mio intento: aiutarvi a fare un po’ di chiarezza per far si che da ora in poi, quando sentirete parlare di PDP e PEI, saprete di che cosa si tratta e in cosa si differenziano. Poiché sono entrambi due documenti complessi e fondamentali nell’universo scuola vi esorto a rimanere connessi… a breve usciranno due articoli dedicati al pianeta PEI e al pianeta PDP per scoprirne tutte le caratteristiche e i suggerimenti utili annessi e connessi per aiutare famiglie ed insegnanti ad orientarsi meglio nella stesura di questa documentazione.

Benedetta Levorato

Psicologa dell’età evolutiva

L’importanza dell’integrazione sensoriale

L'importanza dell'integrazione sensoriale

Immaginate che ogni persona sia un insieme di parti, e queste parti devono per forza comunicare e scambiare informazioni tra loro. Ogni persona ha aspetti individuali che appartengono solo a lui/lei, ogni persona ha tempi diversi, ogni persona elabora gli stimoli differentemente, ogni persona reagisce a suo modo. Nessuno è uguale all’altro. Siamo tutti diversi. E diverso è anche il nostro modo di processare gli stimoli sensoriali. 

Che cosa vuol dire processamento sensoriale?

Il processamento è l’organizzazione e l’interpretazione che il nostro cervello mette in pratica rispetto a degli stimoli esterni. È come se facesse un confronto con le esperienze passate e le mettesse in ordine. Ognuno di noi ha un profilo individuale e un processamento sensoriale individuale, questo vuol dire che il nostro cervello elabora queste informazioni diversamente, perché ogni persona ha avuto esperienze di vita, culture, ambienti, famiglie che non sono mai simili ad altri. 

Ma come possiamo avere un buon processamento sensoriale?

Attraverso le esperienze sensori-affettivo-motorie. 

Ogni giorno possiamo provare migliaia di esperienze diverse, ma soprattutto creare il contesto adeguato affinché ogni bambino possa provarle. Questa tipologie di esperienze sono fondamentali per lo sviluppo dei nostri bambini, perché lo coinvolgono a 360 gradi: coinvolgono le sue emozioni, la sua affettività, il suo corpo e i suoi sistemi sensoriali. I sistemi sensoriali, sono diversi dai nostri organi di senso, in quanto consistono nelle funzionalità e nei recettori dei nostri organi che inviano informazioni al cervello e sono 8: sistema olfattivo, sistema uditivo, sistema tattile, sistema visivo, sistema gustativo, sistema vestibolare, sistema propriocettivo, sistema eterocettivo. Ecco perché è importante per ogni bambino poter fare più esperienze possibili, ma soprattutto dopo aver letto tutto questo, potete capire quanto importante sia il corpo e quanto importante sia usarlo. Se lasciamo i bambini privi di sperimentare, privi di sporcarsi, privi di arrampicarsi, privi di stare in natura, limitiamo il loro sviluppo. Se lasciamo i bambini davanti a dispositivi tecnologici, limitiamo il loro corpo, limitiamo l’integrazione sensoriale, limitiamo il loro sviluppo. 

Dott.ssa Laura Garrone

Pedagogista clinico, psicomotricista funzionale, neuropedagogista e terapista dirfloortime

A.A.A. CERCASI PENSIERI FELICI: cose da sapere sui pensieri non utili

A.A.A. CERCASI PENSIERI FELICI: cosa da sapere sui pensieri non utili

Bentornato! Oggi voglio partire sbloccandoti un ricordo… Se hai visto Peter Pan sai anche tu che per staccare i piedi da terra, non basta solo la polvere di fata ma anche dei pensieri felici. 

Cos’è di fatto un pensiero felice? Credo che ciascuno di noi possa dare la propria definizione, quella della psicologia ha a che fare con pensieri che si attengono alla razionalità e che sono privi di “errori di ragionamento”.

Questo ci porta quindi a distinguere due stili di pensiero: i pensieri funzionali e i pensieri disfunzionali.

Cosa sono i pensieri funzionali?

Secondo Beck, padre della psicoterapia cognitivo-comportamentale, ciascun individuo si crea degli schemi cognitivi, una sorta di impalcatura attraverso la quale ordina e dota di significato la realtà che lo circonda. Come un filtro che in base alle nostre esperienze, ai nostri apprendimenti, ai nostri scopi, utilizziamo per spiegarci ciò che viviamo.

I pensieri funzionali sono pensieri che ci permettono di risolvere problemi e situazioni, di riflettere raggiungendo uno scopo e di stare bene, ovvero di provare emozioni positive e utili. Prova a pensare a quella volta in cui ti sei messo a progettare qualcosa, quando hai valutato il da farsi, calibrando i pro e i contro, quando hai anche saputo gestire l’emozione utilizzandola come motivazione per proseguire nel tuo pensiero; ecco in quell’occasione molto probabilmente hai utilizzato uno stile di pensiero utile.

Cosa sono i pensieri disfunzionali, o per meglio dire le distorsioni cognitive?

Questo stile di pensiero è caratterizzato da errori di ragionamento automatici, cioè al di sotto della nostra soglia di consapevolezza.  A causa delle distorsioni cognitive interpretiamo in manera disfunzionale ( quindi non utile) le esperienze che viviamo quotidianamente. Sempre A. T. Beck ne ha individuate tre clinicamente significative, sto parlando delle convinzioni negative su di sé, sul mondo e sul futuro. 

Più in generale posso dirti che i pensieri automatici creano delle regole di inferenza che distorcono la realtà provocando sofferenza  e dando origine a falsi sillogismi.

Sebbene tutte le distorsioni cognitive abbiano una propria problematicità, ce ne sono alcune che sono più frequenti di altre; come per esempio:

  • Astrazione selettiva: quando si presta attenzione ad un solo aspetto o a un solo dettaglio della situazione. In questo modo, gli aspetti positivi sono spesso ignorati a vantaggio di quelli negativi.
  • Pensiero dicotomico: non esistono sfumature, gli eventi vengono valutati in forma estrema, del tipo buono / cattivo, nero / bianco, on / off, giusto/sbagliato, ecc.
  • Super-generalizzazione: si giunge a una conclusione generale partendo da un evento particolare.
  • Ingigantire e minimizzare: il pensiero pessimista, ovvero quando si assume la tendenza a esagerare gli aspetti negativi di una situazione, riducendo viceversa al minimo il positivo.
  • Personalizzazione: vengono attribuite caratteristiche personali a una situazione del tipo “Ce l’hanno sicuramente con me!”.
  • Visione catastrofica: si considera certo lo scenario peggiore considerato.
  • Doverizzazione: ci si autoimpone regole rigide e severe su come le cose dovrebbero andare, su come gli altri dovrebbero comportarsi o su quello che noi stessi dovremmo fare.

Ora che conosci tutto sui pensieri, prova a far caso a quale stile ti appartiene di più e ricorda cambiare il proprio stile di pensiero è possibile e lo si può fare grazie anche all’aiuto di un professionista.

Dott.ssa Griguoli Veronica

Psicologa

Bibliografia

  • Semerari, A. (2000). Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Editori Laterza.
  • Beck, A.T., Rush, J.A., Shaw, B., Emery, G. (1979). Cognitive Therapy of Depression. The Guilford Press, New York.
  • Beck, A.T., Freeman, A. (1990). Cognitive Therapy of Personality Disorders. The Guilford Press, New York.
  • Sassaroli, R. Lorenzini (1995). Attaccamento, Stili di Conoscenza e Disturbi di. Personalità. Milano: Raffaello Cortina Editore
Cosa sono gli strumenti compensativi? E le misure dispensative?

Cosa sono gli strumenti compensativi? E le misure dispensative?: facilitatori o mezzi del tutto inclusivi?

Qualche giorno fa abbiamo mosso i primi passi nel mondo dei DSA (Dsa) scoprendo di cosa si tratta e le loro principali caratteristiche

E’ giunto quindi il momento di conoscere quelli che sono gli strumenti compensativi e le misure dispensative che gli studenti con diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento, possono utilizzare essere grazie alla legge 170 del 8 ottobre 2010, Nuove norme in maniera di disturbi specifici dell’apprendimento in ambito scolastico.

Questa legge all’articolo 5 definisce le “Misure didattiche di supporto” offrendo il diritto a coloro che hanno diagnosi di DSA, di poter utilizzare gli appositi provvedimenti compensativi e dispensativi di flessibilità didattici nel corso degli anni di studio.

Avete capito quindi cosa sono? 

Provo a spiegarvelo partendo prima da un piccolo gioco!!!

  • Porti gli occhiali? Se si prova a toglierli e guardati attorno.. cosa vedi?
  • Se gli occhiali non li hai prova a scrivere con la mano opposta a quella che usi abitualmente.. come va?

Fatto? Cosa hai provato???

Io una certa frustrazione. Senza occhiali non vedo da lontano e scrivere con la mano sinistra mi è quasi impossibile… quindi? Partendo da questi due piccoli esempi provo ora a spiegarti, in modo semplice e chiaro, cosa sono questi strumenti di cui spesso si sente parlare. 

Gli strumenti compensativi

Partiamo dal primo esempio: gli occhiali, strumenti che, per chi come me non vede al meglio, è tenuto a portare. Questi corrispondono ad un vero e proprio strumento compensativo. Essi, infatti, vanno a compensare una mia fragilità e mi permettono di raggiungere obiettivi eguali a chi gli occhiali non li ha. Possiamo quindi affermare che gli strumenti compensativi sono mezzi che, all’interno dell’ambiente scolastico, permettono un apprendimento efficiente da parte dell’alunno favorendo in lui la “diminuzione” delle difficoltà e delle fragilità in determinate attività o compiti.

 

Ogni strumento è personalizzato alle potenzialità e fragilità dello studente e non rappresentano in alcun modo una facilitazione. Essi consentono pari opportunità di apprendimento tra compagni.

Le misure dispensative

Il secondo esempio che ti ho fatto prima riguarda la scrittura con la mano opposta a quella abituale. Facile no? Ecco, le misure dispensative corrispondono a interventi che dispensano l’alunno da determinate attività o compiti che risultano essere complessi per lui e che non favoriscono in alcun modo l’apprendimento. 

Vediamone insieme alcuni esempi. 

Ecco alcuni strumenti compensativi:

  • Utilizzo della calcolatrice;
  • Utilizzo di mappe o schemi personalizzati;
  • Uso di un quaderno “speciale” con righi colorati;
  • Carattere con un font particolare o con una grandezza maggiore;
  • Uso della sintesi vocale.. e tantissimi altri.

Tra le misure dispensative troviamo:

  • evitare l’uso del corsivo o dello stampato minuscolo o la scrittura della lingua o delle lingue straniere
  • maggior tempo nelle prove di verifica;
  • dispensa dalla lettura ad alta voce o solo se concordata con l’alunno.
  • non richiedere la copia dalla lavagna o scrivere a mano sotto dettatura;
  • sostenere solo interrogazioni programmate, in forma orale o, in taluni casi, le verifiche in formato digitale.

È chiaro dunque come strumenti compensativi e dispensativi, se utilizzati in maniera personalizzata, diventano fondamentali per accompagnare i ragazzi nel loro percorso di autonomia. Per tale ragione ricordiamo che l’uso di tali strumenti è fondamentale anche a casa durante i pomeriggi di studio al fine di rendere il momento dei compiti efficace e strategico ma soprattutto di far sentire lo studente compreso, valorizzato e sostenuto permettendogli di raggiungere un buon livello di autostima e autoefficacia personale.

Spero che questo articolo ti abbia chiarito le idee sull’argomento, se invece hai ancora domande, contattami presso lo Studio Progetto Vita, sarò felice di aiutarti! Ti auguro un buon proseguimento e ti aspetto al prossimo articolo.

Dott.ssa Giorgia Ghiraldini

Educatrice socio-pedagogica

Lo sviluppo del linguaggio

Lo sviluppo del linguaggio. Cosa aspettarmi?

Il linguaggio è una funzione che ci permette di comunicare ed esprimerci attraverso suoni articolati. Ogni bambino sviluppa il linguaggio seguendo un percorso progressivo e graduale. Conoscerne le fasi di sviluppo può aiutarti a comprendere a che punto si trova il tuo bimbo ed eventualmente a capire se c’è qualcosa che non va. 

Ecco, quindi, le diverse fasi di sviluppo del linguaggio dai 0 ai 36 mesi e le caratteristiche di ciascuna.

I primi suoni

La prima fase che si colloca tra zero e un mese è definita primi suoni, dove il neonato comunica attraverso suoni di natura vegetativa i propri bisogni. Il pianto, i gorgoglii e gli sbadigli servono per comunicarti la sua fame, il suo fastidio o il suo nervosismo.

La seconda fase di sviluppo del linguaggio è caratterizzata dalle vocalizzazioni ed è compresa tra i due e i sei mesi, in questa fase il neonato emette suoni prolungati formati da vocali o consonanti, dopo il terzo mese i vocalizzi assumono un valore espressivo e rappresentano benessere e disagio. A cinque mesi il neonato imita i suoni che sente e inizia così uno scambio “comunicativo” con l’altro. 

La terza fase caratterizzata dalla lallazione canonica comprende i sei e i sette mesi, in questo breve periodo di tempo il neonato emette suoni sillabici o sequenze di sillabe “la-la, ba-ba, ta-ta, ma-ma, da-da”; non c’è consapevolezza di contenuto ma l’emissione ha solo uno scopo ludico, il bambino ascolta la propria voce.

La quarta fase caratterizzata dall’imitazione dei suoni è compresa negli otto-nove mesi, in questa fase il bambino ripete i primi morfemi imitando i suoni che percepisce dagli scambi comunicativi con gli altri. 

La quinta fase denominata lallazione variata è compresa tra i dieci e i dodici mesi, durante i quali il bambino dice suoni simili a parole “come fa il cane? Ba-ba”; compaiono i primi gesti non verbali di comunicazione come per esempio l’indicare, il mostrare, l’offrire o fare richieste.

Le prime parole

La sesta fase che comprende un periodo di tempo più ampio tra i 12 e i 17 mesi è caratterizzata dalla comparsa delle prime parole una tappa molto importante per l’interazione con l’ambiente circostante. In questa fase il bambino amplia il proprio vocabolario fino a trenta parole composte principalmente da persone e oggetti familiari, versi di animali. Il bambino dota di significato a ciò che dice.

Intorno ai diciassette mesi e fino ai due anni di età si manifesta una vera e propria esplosione del vocabolario, il bambino apprende velocemente le parole che sente e riesce a combinare due parole come per esempio “mamma, pappa”; alla fine di questo periodo il bambino arriva ad avere nel proprio vocabolario circa 300 parole ma può arrivare anche a svilupparne 600.

Dopo le prime parole, tra i 24 e i 30 mesi compaiono anche le prime frasi, in cui il bambino allinea il soggetto e il verbo e successivamente il resto delle parti sintattiche.

Infine, dopo i trenta mesi e fino ai 3 anni grazie anche alle interazioni con l’altro, il bambino sviluppa le capacità morfosintattiche, produce frasi complesse, impara a porre brevi domande, ha un vocabolario di circa 900 parole e riesce a rispondere a domande chiuse.

Concludendo le fasi che portano allo sviluppo del linguaggio nel bambino sono numerose e ciascuna di esse rappresenta una sfida per i bambini. Ecco perché è importante da un lato incoraggiare e rispettare il ritmo di sviluppo di ciascuno e dall’altro lato monitorare l’andamento in modo da intervenire il prima possibile dopo un’attenta valutazione.

Dott.ssa Gabriella Lurino

Logopedista

I disturbi specifici dell’apprendimento

I disturbi specifici dell'apprendimento

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi del neuro-sviluppo che coinvolgono la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente; si manifestano nel corso dei primi due o tre anni della scuola primaria, quando il bambino si cimenta con i primi compiti, in particolare con l’apprendimento della lettura, della scrittura e delle competenze matematiche. Vengono definiti “disturbi” perché non dipendono da scarso studio o esercizio ma piuttosto dall’impossibilità nel consolidamento di alcuni apprendimenti. Se, ad esempio, un bambino non riesce a memorizzare le tabelline, non è esercitandosi di più che riuscirà in questo intento.
I DSA si caratterizzano per una difficoltà cronica nell’automatizzare alcune abilità; dunque, lo stesso bambino che non riesce a imparare le tabelline, anche da adulto avrà bisogno di pensare a lungo per ricordare un risultato della tavola pitagorica. Ciò non significa che non si possa migliorare in alcuni apprendimenti e riuscire a sviluppare abilità scolastiche, accademiche o professionali di un certo livello. Allo stesso tempo, però, alcune caratteristiche dei DSA possono rimanere inalterate nel corso di tutta la vita.

 

Poniamo attenzione a due parole chiave per comprenderne al meglio il significato: specifici ed evolutivi

Sono specifici perché riguardano esclusivamente alcuni processi di apprendimento, cioè automatismi che non si sviluppano durante il percorso scolastico come la lettura precisa e fluente, la capacità di scrivere senza errori, con grafia regolare e decifrabile e usando lo spazio in modo adeguato, di elaborare i numeri e calcolare

Evolutivi: il disturbo dell’apprendimento si manifesta in età evolutiva, quando emerge la difficoltà del bambino a sviluppare una capacità che per gli altri invece diventa progressivamente un automatismo, ed è modificabile con interventi specifici.

 
Importante sottolineare che i DSA non sono una malattia in quanto non sono dovuti ad un danno organico, ma un diverso neuro funzionamento del cervello, che non impedisce la realizzazione della specifica abilità (lettura, scrittura, numerazione o altro) ma necessita di tempi più lunghi e carichi maggiori di attenzione; una persona con DSA ha intelligenza e capacità cognitive adeguate alla sua età: può però apprendere con difficoltà e a ritmo più lento rispetto ai suoi coetanei perché fatica e disperde energie a causa delle sue caratteristiche individuali di apprendimento che la didattica in quel momento non asseconda.

Questo diverso neuro funzionamento è innato e non è transitorio: accompagna l’individuo per tutta la vita.
Quindi non si “guarisce” dai Disturbi Specifici dell’Apprendimento ma le difficoltà che li accompagnano possono essere compensate con il tempo e con una buona attività di potenziamento/riabilitativa.

I DSA sono classificati in base alla difficoltà specifica che comportano. Si dividono in:

Dislessia – disturbo specifico della lettura che si manifesta con una difficoltà nella decodifica del testo;

Disortografia – disturbo specifico della scrittura che si manifesta con difficoltà nella competenza ortografica e nella competenza fonografica;

Disgrafia– disturbo specifico della grafia che si manifesta con una difficoltà nell’abilità motoria della scrittura;

Discalculia – disturbo specifico dell’abilità di numero e di calcolo che si manifesta con una difficoltà nel comprendere e operare con i numeri.

La legge che riconosce l’esistenza, e che quindi tutela coloro che hanno un disturbo specifico dell’apprendimento è la legge 170 del 2010. Questa legge riconosce l’esistenza di dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia come DSA e definisce quali strumenti sono necessari per aiutare i bambini che ne soffrono ad avere una esperienza scolastica soddisfacente e positiva. La legge 170/2010 definisce infatti norme che favoriscano l’esperienza scolastica di chi presenta un disturbo specifico dell’apprendimento attraverso particolari ausili e facilitazioni.

In particolare, la legge prevede alcune misure dispensative e compensative per facilitare nei bambini con DSA l’apprendimento scolastico. Le misure dispensative riguardano attività che risultano particolarmente difficili da sostenere per un bambino con un disturbo specifico dell’apprendimento e che sono ritenute non indispensabili per un corretto apprendimento.

Le misure compensative sono invece misure volte a favorire l’apprendimento attraverso strategie educative non-standard.

Gli strumenti compensativi per i DSA sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria, tipica del disturbo. Si distinguono in 

  • “specifici”: strumenti che supportano in modo diretto l’abilità deficitaria (lettura/ortografia/grafia/numero/calcolo), come, per esempio, la sintesi vocale, la calcolatrice, la videoscrittura con correttore ortografico, ecc. 
  • “non specifici” o “funzionali”: strumenti che supportano aspetti deficitari di abilità “trasversali” quali memoria, attenzione, ecc. Tali strumenti sono, per esempio, la tavola pitagorica, le tabelle dei verbi, delle formule matematiche, della sequenza dei giorni/mesi.

Le misure dispensative sono particolari interventi didattici che permettono agli alunni con DSA di non svolgere alcuni compiti o di esserne parzialmente esentati (lettura ad alta voce in classe, studio mnemonico delle tabelline, valutazione degli errori ortografici, ecc.).

Riconoscere, diagnosticare, pianificare e usare interventi efficaci significa creare interventi personalizzati e adeguati alle caratteristiche individuali dello studente e al percorso di studi, che favoriscano e garantiscano l’apprendimento. L’obiettivo è rendere lo studente autonomo o il più autonomo possibile, con tutte le ricadute positive in termini di successo scolastico ma anche di autostima e gratificazione nella sfera personale.
Nei prossimi articoli in dettaglio porremo attenzione ad ogni singolo disturbo, con attenzione a fattori di rischio e soprattutto suggerimenti pratici.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale

Bibliografia:

  • Cornoldi, C. (a cura di) (2007), Difficoltà e Disturbi dell’Apprendimento, Il Mulino, Bologna
  • Cornoldi, C. (1999), Le difficoltà di apprendimento a scuola, Il Mulino, Bologna
  • Cornoldi, C. (2017) Le difficoltà di apprendimento a scuola. Far fatica a leggere, a scrivere e a capire la matematica, Il Mulino, Bologna
  • https://www.miur.gov.it/