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Regole: come renderle efficaci per favorire lo sviluppo dei bambini

Regole: come renderle efficaci per favorire lo sviluppo dei bambini

Spesso in consulenza i genitori riportano la fatica nel guidare i propri figli in quella che è l’accettazione delle regole e dei no, portandoli spesso ad attuare una funzione genitoriale in alcuni casi eccessivamente normativa e rigida, in altri casi eccessivamente accomodante. Quindi eccomi oggi con qualche strategia per aiutarvi a porre dei confini positivi per una crescita armoniosa dei vostri bambini.

Crepet afferma che: “Le regole e i ‘no’ sono come dei paracarri ai lati di una strada; sono punti di riferimento, non debbono cambiare di posizione, non possono decidere di esserci o non esserci.”

Dunque, le regole sono fondamentali, ma per essere efficaci deve esser e chiarito ai nostri bambini il significato di esse. “Perché devo stare attento quando attraverso la strada?”, “Perché dobbiamo mangiare tutti insieme?”; Quando il bambino chiede il perché della regola, sta cercando il senso delle norme ed in questo, voi adulti di riferimento, avete l’occasione di trasmettere loro il valore della vita, del rispetto, dell’amore per la famiglia e per gli altri.

Il genitore nel suo ruolo educativo deve quindi mantenere la giusta distanza in un equilibrio tra il dover rispondere al bisogno di sicurezza, comprensione e accudimento del bambino, e l’altrettanto bisogno di limiti e confini ben definiti. È questo che permette ai bambini di imparare a “regolare” i propri stati emotivi.

Ecco quindi alcuni semplici e pratici consigli per iniziare ad approcciarci ad una comunicazione efficace della regola:

  • Guarda il tuo bambino negli occhi, abassandoti alla sua altezza
  • Parla al tuo bambino con voce ferma e autorevole; se sta facendo altro è normale che non vi ascolti perciò assicuratevi che vi sti ascoltando.
  • Le regole devono essere chiare, ferme, sintetiche. Vanno quindi evitate le frasi troppo generiche perché risulterebbero poco comprensibili per il bambino. 

Pensiamo ad esempio a quante volte gli diciamo: “Devi fare il bravo”; per aiutarlo a comprendere il senso dobbiamo spiegargli cosa significa, cosa vogliamo che faccia e cosa ci aspettiamo da lui. 

  • Le regole devono essere concrete per cui un bambino farà fatica a comprendere la frase “Devi riordinare” mentre sarà per lui molto più chiara la regola “Metti i tuoi giochi dentro alla scatola”.
  • Prediligi una comunicazione al positivo, evitando il “non”. Sostituisci ad esempio il “non urlare” ad un “parla piano”.

So che con i bambini non è sempre semplice, soprattutto se consideriamo che i genitori non sono “solo” genitori e che nella vita di tutti i giorni la frustrazione può essere tanta, però ci tengo a farti riflettere sull’importanza di iniziare ad approcciarsi ai nostri bambini si con fermezza, a patto che questa sia un’amorevole fermezza.

Dott.ssa Benedetta Levorato

Psicologa

IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

IL DISTURBO DA DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

Il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività (definito anche DDAI in italiano o anche ADHD in inglese, da Attention Deficit Hyperactivity Disorder) è uno dei più comuni disturbi neurocomportamentali.

Si manifesta, nella prima infanzia, principalmente con due classi di sintomi: un evidente livello di disattenzione ed una serie di comportamenti che denotano iperattività ed impulsività. Questo disturbo è considerato ora una condizione eterogenea potenzialmente cronica, che presenta sintomi rilevanti e problematiche associate che vanno a colpire diversi aspetti funzionali della vita di tutti i giorni.

Quali sono le cause dell’ADHD?

Le cause dell’ADHD possono essere di natura:   

  • Genetica
  • Neurobiologica
  • Ambientale

Studi di genetica che hanno coinvolti i bambini hanno mostrato l’esistenza di un’associazione tra l’ADHD e alcuni geni. Ad esempio, un’alterazione nel gene responsabile della produzione di un neurotrasmettitore (dopamina) potrebbe essere una delle cause di questo disturbo: la dopamina è quella sostanza che veicola le informazioni fra i neuroni e, quindi, è alla base di molti processi cognitivi, come ad esempio attenzione e memoria.

Nonostante non vi siano ancora evidenze scientifiche consistenti, la maggior parte dei farmaci utilizzati per curare l’ADHD, infatti, aumenta l’efficacia dell’attività della dopamina nella comunicazione tra neuroni, aiutando così la persona a prestare maggiore attenzione.

Ulteriori studi hanno dimostrato anche la familiarità del disturbo: un bambino affetto da ADHD ha 4 volte più probabilità di avere un parente con la stessa malattia; così come un terzo dei padri che soffrono di ADHD ha un figlio con lo stesso disturbo.

Esistono poi alcuni fattori ambientali che sono associati all’ADHD, in particolare fattori di rischio prenatali, come:

  • esposizione prolungata a fumo di sigaretta;
  • assunzione di alcool o droga in gravidanza;
  • ipertensione;
  • stress;
  • complicanze durante il parto;
  • basso peso neonatale o la nascita prematura;
  • basso peso alla nascita.

Tali fattori non causano in maniera diretta questo disturbo ma possono favorire la comparsa di alterazioni nei geni, che portano poi all’insorgenza dell’ADHD.

Le cause di natura neurobiologica che possono causare la comparsa dell’ADHD sono difetti nella struttura e nel funzionamento della parte frontale del cervello, responsabile di processi cognitivi primari come la pianificazione e l’organizzazione dei comportamenti, l’attenzione e il controllo inibitorio. I deficit strutturali possono poi interessare anche la regione cerebrale che regola le emozioni (limbo) e una parte del sistema nervoso che regola la comunicazione all’interno del cervello (gangli). Tutte queste regioni cerebrali sono interconnesse tra di loro e, quindi, un deficit anche in una sola di esse potrebbe originare il disturbo.

Sintomi del “ADHD” disturbo da deficit di attenzione ed Iperattività

I sintomi relativi alla disattenzione si riscontrano soprattutto in bambini che, rispetto ai propri coetanei, presentano un’evidente difficoltà a rimanere attenti o a lavorare su uno stesso compito per un periodo di tempo sufficientemente prolungato.

Solitamente questi soggetti non riescono a seguire le istruzioni fornite, sono disorganizzati e sbadati nello svolgimento delle loro attività, hanno difficoltà nel mantenere la concentrazione, si fanno distrarre molto facilmente dai compagni o da rumori occasionali e raramente riescono a completare un compito in modo ordinato.

Quando sono in classe sembrano disorientati e, spesso, passano da un’attività all’altra senza averne completata alcuna, si guardano continuamente attorno, soprattutto durante lo svolgimento di compiti, ma anche durante la proiezione della trasmissione tv preferita. Ciò accade soprattutto nei momenti in cui tali attività risultano noiose e ripetitive.

bambini con iperattività – impulsività giocano in modo rumoroso, parlano eccessivamente con scarso controllo dell’intensità della voce, interrompono persone che conversano o che stanno svolgendo delle attività, senza essere in grado di aspettare il momento opportuno per intervenire; i genitori e gli insegnanti li descrivono sempre in movimento e sul punto di partire, incapaci di attendere una scadenza o il proprio turno.

Inoltre, sembrano non sufficientemente orientati al compito e faticano a pianificare l’esecuzione delle attività che vengono loro assegnate.

Le manifestazioni di iperattività e impulsività sembrano essere attribuibili ad una difficoltà di inibizione dei comportamenti inappropriati. I bambini con disturbo dell’attenzione esprimono questa difficoltà con agitazione, difficoltà a rimanere fermi, seduti o composti quando viene loro richiesto.

I soggetti affetti da DDAI presentano delle difficoltà nei seguenti campi relativi all’attenzione e alle funzioni neuropsicologiche: risoluzione dei problemi, abilità di pianificazione, grado di allerta e di attenzione, flessibilità cognitiva, attenzione mantenuta, inibizione delle risposte automatiche, memoria di lavoro non verbale.

Come si manifesta in bambini e adolescenti?

La disattenzione e l’impulsività sono caratteristiche riscontrabili in un ampio range di disturbi psicopatologici in età evolutiva, come ad esempio nei disturbi d’ansia, nella depressione e nei disturbi del comportamento.  È normale per i bambini essere pieni di energia, impulsivi (agire senza considerare la conseguenza delle loro azioni) e disattenti. Le stesse difficoltà si possono riscontrare negli adulti, che sopraffatti dal lavoro, dagli impegni e dai problemi di vita quotidiana non riescono a mantenere attiva la consapevolezza di ciò che stanno facendo e di come lo stanno svolgendo. Tuttavia, per alcuni bambini e adolescenti, il livello di attività, le difficoltà nel controllare l’impulsività e l’attenzione sono talmente pervasivi da impedirgli di stare al passo con le richieste della società.

Bambini con ADHD manifestano una tale impulsività e attività da non riuscire a stare fermi, sono continuamente agitati, parlano quando dovrebbero ascoltare, interrompono i discorsi, non riescono a portare a termine un compito, sembrano non ascoltare quando gli si parla e perdono continuamente oggetti a causa della loro disattenzione.  Talvolta rischiano di farsi male a causa della loro impulsività, sono incapaci di stare seduti a lungo in classe e la loro disattenzione può essere causa di difficoltà di apprendimento. Sono labili dal punto di vista emotivo, difficilmente riescono ad autoregolare le loro emozioni. Una volta diventati adulti continuano ad avere problemi. Fanno fatica a mantenere un lavoro, compiono spesso incidenti stradali, durante le conversazioni stimolano irritazione negli altri a causa della loro difficoltà nell’aspettare il loro turno e la tendenza a parlare in momenti non appropriati. Con molta probabilità le vite di questi bambini, adolescenti e adulti saranno compromesse su più fronti, in ambito sociale, scolastico, cognitivo e familiare.

Come si manifesta a casa?

I bambini con ADHD presentano un gran numero di comportamenti che possono interferire con la vita familiare:

  • Spesso non ascoltano le istruzioni dei genitori e non gli obbediscono.
  • Sono disorganizzati.
  • Spesso dicono cose inopportune.
  • Spesso interrompono le conversazioni.
  • È difficile portarli a letto la sera.
  • Possono mettersi in pericolo a causa della loro distrazione o impulsività.
  • Hanno difficoltà a rimanere seduti a tavola durante i pasti.
  • Spesso bisogna richiamarli e assisterli per assicurarsi che portino a termine un compito.
  • Rifiutano di svolgere i compiti a casa o impiegano un tempo eccessivo per terminarli.
  • Possono manifestare una frustrazione intensa quando le loro richieste non vengono esaudite.

Il disturbo ha un forte impatto sui genitori, che sono costretti giorno dopo giorno ad affrontare le esigenze del loro bambino con ADHD e a monitorare i suoi comportamenti, questo può essere estenuante sia dal punto di vista fisico che psicologico. La frustrazione che molti genitori provano può portare a rabbia e senso di colpa verso se stessi, e irritazione verso il bambino.

Non solo i genitori, ma anche i fratelli dei bambini con ADHD devono affrontare una serie di sfide:

  • I loro bisogni spesso ricevono meno attenzione rispetto a quelli del bambino con ADHD.
  • Possono essere rimproverati in maniera più decisa quando sbagliano, ricevendo meno attenzione per i loro successi, perché dati per scontati.
  • Possono essere responsabilizzati nei confronti del fratello e accusati di non aver fatto il proprio dovere se questo si comporta male sotto la loro supervisione.

Al fine di affrontare le sfide quotidiane che un bambino con ADHD pone è necessario essere in grado di padroneggiare una combinazione di compassione e di coerenza. Vivere in una casa che fornisce al contempo amore, struttura e prevedibilità è la cosa migliore per un bambino o un adolescente che sta imparando a gestire il suo ADHD.

Come si manifesta a scuola?

L’ambiente scolastico può essere un luogo difficile per un bambino con ADHD, basta pensare alle richieste che pone: stare fermi, ascoltare in silenzio, seguire le istruzioni, rimanere concentrati e attenti. Tutte cose che riescono difficili ai bambini con questo disturbo.

Gli studenti con ADHD presentano le seguenti sfide per gli insegnanti:

 

  • hanno difficoltà a mantenere l’attenzione nei compiti richiesti;
  • non eseguono le istruzioni e non portano a termine gli incarichi;
  • difficoltà a organizzarsi nei compiti;
  • facilmente distraibili da stimoli estranei;
  • faticano a stare seduti;
  • si alzano spesso dal banco e vanno in giro per la stanza.
  • spesso dimenticano di annotare i compiti per casa, di farli o di portare quanto svolto a scuola;
  • spesso hanno difficoltà con le operazioni che richiedono passi ordinati, come ad esempio una divisione lunga;
  • rispondono alle domande senza porre sufficiente attenzione alla risposta;
  • hanno difficoltà a rispettare il turno;
  • interrompono gli altri durante le fasi di gioco e/o lavoro;
  • bassa autostima;
  • prese in giro da parte di altri compagni;
  • basse prestazioni scolastiche.

 

Nei prossimi articoli si parlerà di valutazione e del trattamento dell’ADHD e delle strategie di intervento efficaci per il bambino, genitori e scuola.

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi

Bibliografia

  • DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali M. Biondi (Curatore) Cortina Raffaello, 2014.
  • I disturbi del comportamento in età evolutiva. Fattori di rischio, strumenti di assesment e strategie psicoterapeutiche di Pietro Muratori (Autore), Furio Lambruschi (Autore), Cristian Stenico (Illustratore), Annarita Milone (Prefazione).
  • L’intervento cognitivo-comportamentale per l’età evolutiva Strumenti di valutazione e tecniche per il trattamento Mario Di Pietro, Elena Bassi.
Corse, salti e tuffi… Gioco sensomotorio: cos’è e perchè è importante 

Gioco sensomotorio: cos’è e perchè è importante

Corse, salti, tuffi dal divano, prove di equilibrio… quante volte abbiamo visto i bambini cimentarsi e sperimentarsi attraverso schemi di movimento complessi e a volte anche pericolosi. 

Ma perché i bambini ricercano questo tipo di esperienze?

I bambini imparano attraverso il gioco e il movimento, ma soprattutto dal piacere che questi danno gli danno. Esiste una tappa fondamentale nello sviluppo del bambino in cui emerge il gioco sensomotorio

Lo psicologo Jean Piaget usa il termine sensomotorio in riferimento ad uno specifico stadio dello sviluppo dell’intelligenza: l’intelligenza sensomotoria, in cui il bambino tende a ripetere i movimenti che gli offrono sensazioni di soddisfazione e piacere.

Il pedagogista Bernard Aucouturier utilizza il termine senso-motorio riferendosi al movimento, al gioco ed in particolare al piacere che il bambino prova nel muoversi, che può nascere sia per caso ma anche se accuratamente ricercato dal bambino durante alcune attività incentrate sull’esplorazione del proprio corpo.  

Il gioco senso-motorio coinvolge quindi il sistema sensoriale e il sistema muscolo-scheletrico, che dialogano tra loro per creare nuovi circuiti neurali che fungono da esperienza per il bambino che si mette alla prova e ricerca determinate esperienze più o meno dinamiche che gli hanno provocato sensazioni piacevoli, letteralmente si parla di piacere del movimento. Il gioco senso-motorio proprio perché ha lo scopo di mettersi alla prova e superare i propri limiti, è caratterizzato da discontinuità e da rotture che vanno a stimolare il corpo livello sensoriale, soprattutto per quanto riguarda la percezione propriocettiva e vestibolare.

Questa tappa di gioco consente al bambino di esprimere campo anche le sue emozioni: ogni sfida è carica di emozioni che fanno parte del bagaglio del bambino e che possono essere vissute, agite e rielaborate attraverso questo tipo di attività ludica. 

La corsa, il salto e tutte le esperienze motorie dinamiche consentono al bambino di percepire ogni segmento corporeo ma anche tutto il corpo intero, e di mantenere un collegamento costante tra la dimensione corporea e quella emotiva, che si stimolano a vicenda e permettono lo sviluppo di una rappresentazione di Sé unitaria e globale. 

Alcuni degli schemi di movimento maggiormente ricercati dai bambini sono: 

  • Cadere: consente al bambino di imparare a dominare la verticalità e l’orizzontalità alternandole, inoltre il bambino sviluppa fiducia nel suo corpo che si ritrova “intero”.
  • Saltare: viene cercare il piacere di perdere e ritrovare il contatto col suolo, ma anche di perdere e ritrovare con le proprie forze un punto di appoggio sicuro, sviluppando la fiducia in sé stessi e l’autostima.
  • Arrampicarsi: è un passaggio di sviluppo importante per il bambino sia dal punto di vista motorio, per gli schemi di movimento richiesti, sia perché il bambino in questo modo sfida sè stesso e cerca di comprendere e conquistare il mondo da un’altra posizione.
  • Tuffarsi: in questo caso il bambino sperimenta la gravità e la mette alla prova, cerca di “volare”; l’atterraggio porta alla consapevolezza dei propri limiti. Questa esperienza è importante per lo sviluppo cognitivo. 

Il piacere senso-motorio è l’evidente espressione dell’unità della personalità del bambino, perché crea la connessione tra le sensazioni corporee e gli stati tonico-emozionali […] esso deve essere riconosciuto come punto nodale, via principale di cambiamento nel bambino”. 

Dott.ssa Ilaria Dissette

Terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva

BIBLIOGRAFIA

  • Aucouturier B., Darrault I., Empinet J. L., La pratica psicomotoria. Rieducazione e terapia. Armando, 1986
  • Aucouturier B., Il metodo Aucouturier. Fantasmi d’azione e pratica psicomotoria, Franco Angeli, 2011
  • Aucouturier B.-A. LaPierre, La simbologia del movimento. Psicomotricità ed educazione, ed. Edipsicologiche, 1978.
  • Vecchiato M., Il gioco psicomotorio. Psicomotricità psicodinamica, Armando, 2007
  • Camaioni L., Di Blasio P., Psicologia dello sviluppo, Il Mulino Manuali, 2008
L’OSTEOPATIA NELLA SFERA UROGENITALE MASCHILE: PROSTATITE E SINDROME DA DOLORE PELVICO CRONICO (CPPS)

L’OSTEOPATIA NELLA SFERA UROGENITALE MASCHILE: PROSTATITE E SINDROME DA DOLORE PELVICO CRONICO (CPPS)

La prostatite è un’infiammazione della ghiandola prostatica. 

In alcuni casi è dovuta ad un’infezione batterica, e può avere insorgenza acuta, o avere un andamento cronico nel tempo. 

La classificazione prevede 4 categorie di prostatiti:

  • Categoria I: prostatite acuta batterica
  • Categoria II: prostatite cronica batterica
  • Categoria III: prostatite cronica abatterica o sindrome cronica da dolore pelvico (CPPS)
  • Categoria IV: prostatite asintomatica

 

Si stima che il 50% degli uomini abbiano sofferto di prostatite almeno una volta nella vita. 

L’incidenza globale è attorno al 5-14%, con una prevalenza di rischio maggiore nella fascia di età tra i 20 e i 40 anni.

 

I segni e sintomi legati all’infiammazione prostatica sono: bruciore alla minzione (disuria), urinare spesso (pollachiuria) e dolore pelvico. La sintomatologia inoltre varia tra prostatite acuta e quella cronica.

 

La prostatite acuta si presenta con comparsa improvvisa di febbre, dolore nella regione perineale (tra lo scroto e l’ano), sovrapubica e alla schiena (aree dorso-lombari e lombo-sacrali). Sono inoltre presenti sintomi urinari irritativi, come aumento della frequenza urinaria (specialmente la notte), bruciore al momento della minzione, senso di urgenza minzionale. Sono presenti anche sintomi urinari ostruttivi, come difficoltà a urinare, un getto di urina ridotto, frequenti minzioni di poco volume con incapacità a svuotare del tutto la vescica, e ritenzione urinaria.

 

Una prostatite si definisce cronica quando i sintomi perdurano un periodo di tempo tipicamente maggiore ai 3 mesi e non è presente febbre.

La prostatite viene quindi diagnosticata in base alla presentazione clinica del paziente, all’esame obiettivo del medico Urologo, e con l’ausilio dell’esame delle urine e dell’urinocoltura. Il quadro clinico può essere ulteriormente completato da un uroflussometria, dallo studio del residuo urinario post-minzionale e da una eventuale ecografia trans-rettale. La maggior parte delle prostatiti batteriche, sia acute che croniche, sono associate a infezione delle vie urinarie, in particolare a cistiti. Il patogeno responsabile di circa l’80% delle prostatiti è l’Escherichia coli, tipicamente maggiore ai 3 mesi e non è presente febbre.

In medicina convenzionale la terapia antibiotica è il trattamento di scelta per la prostatite batterica acuta (di norma per 3-4 settimane), mentre nel caso di prostatite cronica, se batterica, la durata aumenta (6-8 settimane). Soprattutto nei casi di prostatite cronica possono essere affiancati altre classi di farmaci, che servono a ridurre il dolore e a ridurre la sintomatologia urinaria. Ogni inquadramento farmacologico sarà comunque adattato alla tipologia di Paziente e alla categoria di appartenenza del disturbo diagnosticato.

La medicina Osteopatica attraverso il contatto manuale e basandosi sulle stesse conoscenze anatomo-fisiologiche e patologiche della medicina tradizionale, ricerca alterazioni funzionali corporee che limitano la Salute dell’organismo (cioè la capacità di adattamento agli stimoli ambientali) in modo da favorire e stimolare i processi di autoguarigione propri del corpo umano.

Nelle problematiche quali la prostatite cronica o sindrome da dolore pelvico cronico (CPPS), le dorsalgie, lombalgie e sacralgie di origine urogenitale la valutazione e il trattamento osteopatico è finalizzato a migliorare i rapporti anatomici, la vascolarizzazione, il drenaggio e l’innervazione tra le varie strutture. In questo modo si sostiene il Paziente nel percorso medico specialistico, generando una possibilità ulteriore nel velocizzare il processo di guarigione dello stato infiammatorio cronico in corso, migliorando la qualità della vita e riducendo la sintomatologia talvolta invalidante che questi disturbi provocano.

Andrea Viale

DO – Osteopata

La terapia miofunzionale

La terapia miofunzionale

“il dentista vi ha parlato di malocclusioni dentali?”

“il vostro bambino fatica a soffiarsi il naso?

“il vostro bambino pronuncia male alcune parole”

“la lingua del mio bimbo è sempre tra i denti”

“sono stata dal dentista e mi ha palato di palato stretto”

“ho difficoltà a dormire”

“ogni volta che mastico qualcosa ho dolore”

“ho sempre male alla schiena”

“mi guardo allo specchio e il mio viso sembra non essere simmetrico”

Dietro a tutte queste affermazioni, potrebbe esserci un problema definito con la sigla SMOF (squilibrio muscolare orofacciale). 

CHE COSA SI INTENDE PER DISEQUILIBRIO DELLA MUSCOLATURA ORO-FACCIALE _SMOF_

Lo squilibrio muscolare orofacciale è un’alterazione delle strutture bucco facciali e di una o più funzioni orali. I sintomi sono:

  • Malocclusioni;
  • problemi posturali;
  • respirazione orale;
  • palato ogivale;
  • difficoltà nella masticazione;
  • difficoltà nella produzione di alcuni fonemi;
  • disturbi del sonno;
  • disturbi dell’attenzione;
  • asimmetria oro facciale;
  • deglutizione disfunzionale;
  • errata posizione della lingua. 
COSA SI INTENDE PER DEGLUTIZIONE DISFUNZIONALE?

Tale accezione indica il persistere di atteggiamenti propri della deglutizione infantile (es. l’interposizione della lingua tra i denti);

 

“COSA POSSO FARE?”

È utile avviare un percorso multidisciplinare che coinvolge più figure professionali: l’ortodontista, l’odontoiatra, l’osteopata, il logopedista. Ciò garantisce una corretta diagnosi della problematica e l’elaborazione di una terapia personalizzata ed efficace. Nel caso specifico della logopedia, verrà avviato un percorso di terapia miofunzionale. 

CHE COS’E’ LA TERAPIA MIOFUNZIONALE (TMF)

È un percorso di terapia logopedica il cui scopo è quello di ripristinare l’equilibrio della muscolatura oro facciale e delle funzioni orali in caso di deglutizione disfunzionale. 

A CHI È RIVOLTA LA TERAPIA MIOFUNZIONALE?

La terapia miofunzionale è utile nei bambini, negli adolescenti e adulti.

Nel nostro studio, con me, è possibile avviare un percorso personalizzato di terapia miofunzionale.

Dott.ssa Gabriella Laurino

Logopedista

Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance, termine inglese che indica il raggiungimento di uno stato di equilibrio tra lavoro e vita privata, è una componente fondamentale per il benessere fisico e mentale dei lavoratori e contribuisce a scongiurare l’insorgere di un “burnout”. Quest’ultimo è importante in quanto comporta una riduzione della motivazione e della produttività, e può associarsi a problemi di salute come disturbi cardiocircolatori ma anche del sonno, irritabilità, difficoltà relazionali e di concentrazione. 

Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla possibilità di far convivere in maniera pacifica la sfera professionale e quella privata, ambiti di vita oggi sempre meno nettamente distinti, grazie ad esempio all’introduzione dello strumento dello smart working. Quest’ultimo infatti a volte può rappresentare anche un rischio per il corretto bilanciamento dei tempi lavorativi ed extralavorativi e far sì che, se svolto a casa, il lavoro possa addirittura aumentare e occupare porzioni sempre maggiori di vita domestica e privata.

Per cercare di ridurre questo rischio, in prima battuta, è necessaria una consapevolezza su ciò che comporta maggiore stress nella nostra vita e ciò che invece allevia le nostre giornate.

In tal senso, può essere utile focalizzarsi sulle cose che riteniamo davvero importanti per noi, giorno per giorno, quando dobbiamo scegliere ad esempio tra un aperitivo con gli amici e il fare gli straordinari per la consegna di un progetto importante. 

Altro aspetto fondamentale è lasciare andare un po’ il bisogno di controllo e lasciare fare agli altri quello che non è strettamente necessario che facciamo noi, sia in ambito privato che al lavoro, concedendoci quindi del tempo libero e ritmi più sereni per svolgere le nostre attività in modo da dedicare a queste ultime la nostra piena attenzione e il valore che meritano.

Ma quindi? suggerimenti e soluzioni?

Per preservare il proprio benessere psicofisico, senza rinunciare anche alla soddisfazione in ambito lavorativo:

  • non rinunciare alle relazioni sociali, con i colleghi e con le persone all’esterno dell’ambito lavorativo;
  • godersi la possibilità di rallentare ogni tanto, dedicandosi nel tempo libero anche ad attività riposanti;
  • gestione dei limiti personali, capendo quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi e fare in modo che gli altri rispettino tali confini;
  • parlare con i propri superiori al lavoro trasmettendo loro il concetto che meno ore non vuol dire per forza meno produttività e che quindi gli straordinari non sono sempre necessari;
  • concentrarsi sulle attività lavorative ma anche su quelle personali approcciandosi a queste ultime con attenzione e un atteggiamento fondamentalmente sereno.

Dott.ssa Diana Mabilia

Psicoterapeuta

Bibliografia

  • McCormack, N., & Cotter, C. (2013). Managing burnout in the workplace: A guide for information professionals. Elsevier.
  • McMann, P. E., Ellinger, A. D., Astakhova, M., & Halbesleben, J. R. (2017). Exploring different operationalizations of employee engagement and their relationships with workplace stress and burnout. Human Resource Development Quarterly, 28(2), 163-195.
  • Tang, X., & Li, X. (2021). Role stress, burnout, and workplace support among newly recruited social workers. Research on Social Work Practice, 31(5), 529-540.
  • Van Heugten, K. (2011). Social work under pressure: How to overcome stress, fatigue and burnout in the workplace. Jessica Kingsley Publishers.
Scrivere proprio non mi piace. Simona e la disortografia.

Scrivere proprio non mi piace. Simona e la disortografia.

Ciao, sono Simona (nome di fantasia), ho 9 anni e scrivere proprio non mi piace.

A scuola vogliono che scriva in corsivo ma se scrivo in corsivo faccio tanti “orrori” – come li chiama la maestra – di ortografia.

Come posso fare? Molte volte non voglio ASSOLUTAMENTE scrivere.

Bentornati! Eccoci qua con un nuovo argomento. Oggi parliamo di DISORTOGRAFIA.

La disortografia è un disturbo specifico dell’apprendimento, più specificatamente della componente ortografica della scrittura. Tale fragilità emerge in particolar modo attraverso 3 errori specifici:

  1. Errori Fonologici, nei quali ciò che il bambino scrive non corrisponde a ciò che è stato detto;
  2. Errori Non Fonologici, ad esempio separazioni o fusioni illegali;
  3. Errori Fonetici, cioè accenti e doppie.

Inoltre, come la dislessia, esistono 2 parametri da osservare in sede di valutazione: la velocità di scrittura e la correttezza ortografica.

Le caratteristiche (https://www.aiditalia.org/come-si-riconoscono-i-dsa) di questo disturbo sono:

  • scarsa autonomia nella scrittura delle parole;
  • sostituzioni o elisioni di lettere;
  • difficoltà nell’atto della scrittura.

Campanelli d’allarme e diagnosi

La diagnosi di disortografia è possibile quando il bambino è in classe terza della scuola primaria (solo in casi eccezionali anche durante la fine della classe secondo) ma questo non vuol dire non riuscire ad osservare possibili campanelli d’allarme emergenti durante la classe seconda. Tra questi campanelli d’allarme troviamo:

  • commette molti errori ortografici;
  • ha difficoltà nello scrivere in corsivo;
  • fatica nel copiare alla lavagna;
  • scambia lettere graficamente o foneticamente simili, ad esempio f-v, p-b, m-n;
  • gestisce non adeguatamente lo spazio del foglio.

Riuscire ad individuare queste prime difficoltà e quindi fare un intervento precoce possiamo permettere al bambino una maggiore serenità durante le ore scolastiche e durante lo svolgimento dei compiti.

Cosa possiamo fare dopo una diagnosi di Disortografia?

Il ruolo della scuola e della famiglia

Successivamente alla diagnosi di disortografia le figure che più devono mettersi in gioco oltre al bambino sono la famiglia e la scuola. Ma in che modo?

L’insegnante è opportuno che metta in atto alcune strategie per favorire l’apprendimento del bambino. Nello specifico può:

  • dispensare il bambino dalla scrittura quando non è questo il primo obiettivo richiesto;
  • far copiare il bambino da un foglio dispensandolo dalla copiatura alla lavagna;
  • lasciare un tempo maggiore per permettere al bambino di completare il lavoro che deve svolgere;

In casi più complessi, e dove il bambino è seguito e guidato, può essere inserito l’utilizzo del computer (dettatura, rilevamento automatico dell’errore)

La famiglia può:

  • familiarizzare con il bambino nell’uso degli strumenti compensativi in accordo con la scuola e se, presente, con il clinico di riferimento;
  • comunicare, ascoltare e accogliere le esigenze e i bisogni del bambino.

Non abbiate timore di chiedere aiuto nel momento in cui notate fragilità di questo tipo nei vostri bambini. Una diagnosi di disortografia permette un maggior benessere nella vita del bambino.

Dott.ssa Giorgia Ghiraldini

Educatrice socio-pedagogica

Bibliografia:

Paura del conflitto? Ecco i 3 segreti per imparare a gestirli meglio.

Paura del conflitto? Ecco i 3 segreti per imparare a gestirli meglio.

Bentornato, su questo blog! Che piacere ritrovarti dopo un po’ di tempo… per chi non mi conoscesse io sono la dott.ssa Griguoli Veronica, sono una psicologa e all’interno di Studio Progetto Vita mi occupo di percorsi rivolti sia agli adulti sia a ragazzi.

Oggi voglio parlarti di paura del conflitto, ti è mai capitato di non riuscire a dire la tua solo per paura della discussione che ne sarebbe poi derivata? Della fatica che avresti fatto nel gestire quel dissapore? 

In psicologia, la parola conflitto indica uno scontro tra ciò che una persona desidera e una necessità interiore e interpersonale e ciò che impedisce la soddisfazione del bisogno, dell’esigenza o dell’obiettivo connessi a tale desiderio. In altre parole, il conflitto è una discordanza tra ciò che una persona desidera e ciò che ostacola o impedisce il raggiungimento del desiderio stesso

Il conflitto viene distinto in interiore (quello che la persona ha con sé stessa) e in interpersonale (che coinvolge almeno due persone). Quello interpersonale può essere definito, come una divergenza nella quale ciascuna delle persone coinvolte vuole imporre il proprio punto di vista senza fare concessioni all’altra.

Spesso quando incontro i pazienti, tra le richieste che mi fanno a volte c’è questa: “Dottoressa vorrei non litigare più con gli altri”, in questi casi, dopo un bel respiro, cerco di spiegare loro che i litigi sono inevitabili in qualsiasi contesto della vita quotidiana, motivo per cui non riusciremo a smettere di “litigare con gli altri” anche se, spesso, tendiamo ad evitare di entrare in conflitto con qualcuno. 

Di solito mettiamo in atto una tale condotta perché lo “scontro” spaventa e tendiamo ad evitarlo poiché ci porta a scoprire delle parti di noi che non ci piacciono, che teniamo nascoste, che potrebbero dare un’immagine di noi che si allontana dalla persona che vogliamo essere. Un conflitto fa soffrire, produce crisi e tensione e ci fa sentire in difficoltà.

Inoltre, è associato all’idea di perdere la relazione con l’altro, alla paura, appunto, di perdere l’altra persona; se il litigio non è vissuto come confronto, ma come rottura, allora sicuramente ci sarà la tendenza ad evitarlo.

Prova a pensare, cosa vorrebbe dire nella tua vita non entrare più in conflitto con nessuno? Davvero sei convinto sia tutto questo paradiso? 

Le persone che tendono a rifuggire dai conflitti possono subire il fenomeno del people-pleasing, ossia la tendenza a voler piacere agli altri a tutti i costi pur di ottenere la loro approvazione. Molto spesso sono stati bambini inibiti nell’espressione dei loro bisogni e sono diventati adulti compiacenti e servili, che hanno imparato a non dire quello che pensano per assicurarsi la vicinanza dell’altro.

Altre persone che vivono il litigio con estrema fragilità e sofferenza possono aver sviluppato questa chiusura emotiva come una risposta al trauma. Gli individui che hanno vissuto esperienze traumatiche nelle relazioni di attaccamento hanno visto recidere la loro fiducia di base e, con essa, la possibilità di confrontarsi serenamente con l’altro. Alcuni di loro possono provenire da sistemi familiari altamente conflittuali dove la litigata e l’esternalizzazione di una rabbia esplosiva sono state le modalità di comunicazione dominanti

Se il solo pensiero di litigare inizia a far battere forte il cuore e a far scendere le lacrime, è possibile che la disregolazione emotiva stia prendendo il sopravvento e ostacolando la tua possibilità di comunicare in modo efficace durante un conflitto. Emozioni intense come rabbia, frustrazione o tristezza possono diventare opprimenti e rendere difficile impegnarsi in modo costruttivo nella conversazione. La chiusura, in quest’ottica, può diventare un meccanismo di difesa utile a proteggersi da ulteriori stress emotivi.

Come si può allora pensare al conflitto in un’ottica più funzionale?

Il litigio non dovrebbe essere inteso necessariamente con accezione negativa, difatti, se adeguatamente gestito, esso può essere un’opportunità per migliorare le relazioni interpersonali.

Una buona gestione dei conflitti è determinante sia nella sfera privata, legata alla famiglia, all’amicizia e all’amore, sia nell’ambito lavorativo, teatro di numerosi scontri dovuti alla convivenza forzata tra persone che non si conoscono. Infatti, è importante vedere e viversi il conflitto, come espressione di visioni differenti, momenti di crescita individuale e come possibilità di migliorare le proprie relazioni.

Ecco allora i miei 3 consigli:

  • Analizzare e capire chi sono i protagonisti: chi siamo noi, chi sono le persone coinvolte e considerare la storia personale e gli aspetti situazionali che ognuno porta con sé durante la discussione.
  • fare chiarezza sugli obiettivi reciproci: A volte gli obiettivi che muovono le persone coinvolte sono differenti e così anche i punti di vista sono molteplici e l’allenamento a considerarli può aprire strade creative alla soluzione dei problemi.
  • Riuscire a tenere sotto controllo l’oggettività: l’argomento, del litigio e gli aspetti personali coinvolti aiuta la gestione del conflitto. Talvolta è utile rimanere fedeli al tema della discussione senza andare ad attaccare l’altra persona sul piano personale.

Dott.ssa Veronica Griguoli

Psicologa

MIO FIGLIO HA UN “BES”… MA CHE SIGNIFICA?!

Mio figlio ha un “BES”… Ma che significa?

Che strana sigla…scopriamo insieme cosa significa BES e perché spesso la ritroviamo “appiccicata” ai nostri ragazzi!

BES sta per “Bisogni Educativi Speciali” ed al suo interno tendenzialmente rientrano 3 grandi sotto-categorie:

  1. DISABILITÀ (tutelati dalla Legge 104/92);
  2. DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI (Disturbi Specifici dell’Apprendimento – DSA tutelati dalla Legge 170/2010; Disturbo della Coordinazione Motoria ed altri disturbi evolutivi come Disturbo da Deficit di Attenzione e/o Iperattività – ADHD, Funzionamento Intellettivo Limite – FIL, Disturbo Specifico del Linguaggio – DSL, ecc.);
  3. SVANTAGGIO SOCIO-ECONOMICO, LINGUISTICO E CULTURALE.

Come possiamo intuire, rientrano tutte quelle condizioni che possono influire sull’apprendimento dei bambini nel contesto scolastico. I BES sono, però, particolari esigenze educative che possono manifestare gli alunni anche solo per determinati periodi per motivi fisici, biologici, fisiologici o psicologici e sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. 

Come per i DSA, anche qui ritroviamo una normativa creata ad hoc per rispondere alle necessità di cui abbiamo parlato, ovvero la Circolare Ministeriale “Strumenti d’intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica” (C.M. n.8 del 6 Marzo 2013). La legge sancisce il diritto di ogni studente con BES a ricevere un’istruzione inclusiva che promuova la partecipazione attiva e la realizzazione del proprio potenziale. 

A questa ovviamente segue la stesura di un Piano Didattico Personalizzato ed Individualizzato (PDP) che tenga conto delle difficoltà di ciascun alunno per cui ne è richiesta l’attivazione. Il PDP definisce gli obiettivi, le strategie e gli interventi necessari per favorire l’apprendimento con indicazioni su strumenti compensativi e/o dispensativi. DEVE prevedere diversi aiuti personalizzabili in base alle esigenze del bambino, quali: interrogazioni programmate, dispensa da lettura o scrittura, maggiore tempo nelle verifiche e nei compiti, uso di mappe concettuali, calcolatrice, ecc. 

Non abbiate timore che i vostri figli possano sentirsi “diversi”…questa etichetta BES è in realtà un valido aiuto per permettere loro di fare meno fatica, in modo che sappiano sfruttare al meglio le reali risorse che possiedono. Solo così potrete assicurare loro un percorso di studi sereno e aiutarli a raggiungere gli obiettivi, anche i più impensabili che inizialmente possono apparire insormontabili! 

Dott.ssa Chiara Zaghini 

Psicologa dell’Età Evolutiva

Bibliografia

Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni operative