Ricerca per:
CAPIRE IL BINGE EATING: UNA GUIDA SEMPLICE PER TUTTI

CAPIRE IL BINGE EATING: UNA GUIDA SEMPLICE PER TUTTI

Il Binge Eating Disorder (BED), noto anche come disturbo da alimentazione incontrollata, è un disturbo alimentare caratterizzato da episodi ricorrenti di assunzione eccessiva di cibo in un breve lasso di tempo, spesso accompagnati da sensazioni di perdita di controllo. 

Questo problema va oltre il semplice eccesso alimentare occasionale, trasformandosi in una condizione che può avere gravi implicazioni sulla salute fisica e mentale delle persone coinvolte. In questo articolo, esploreremo insieme che cosa significa soffrire di Binge Eating Disorder, i sintomi che lo contraddistinguono e accennerò brevemente al trattamento possibile.

 Ti capita mai di mangiare una grossa quantità di cibo in un breve lasso di tempo e poi di sentirti in colpa o di provare vergogna? Questo articolo potrebbe fare al caso tuo!

Questi episodi infatti possono essere definiti abbuffate: l’abbuffata nello specifico in ambito alimentare viene definita come un episodio di alimentazione eccessiva, incontrollata a cui segue un disagio significativo in cui l’individuo sperimenta un senso di perdita di controllo.   Questo problema può avere un impatto significativo non solo sulla salute fisica ma, anche, emotiva e sociale. Vi possono essere infatti conseguenze a livello fisico come ad esempio l’obesità, conseguenze emotive dettate da emozioni negative e bassa autostima ed infine conseguenze sociali come difficoltà relazionali sino ad arrivare a vere e proprie forme di isolamento.

Sintomi e caratteristiche del disturbo:

Come riconoscere che siamo in fase di abbuffata? Ecco di seguito alcuni segnali utili per poterla riconoscere:

– Sensazione di perdita di controllo. Questa si presenta ad esempio quando si mangia oltre il punto si sazietà e ci si sente incapace di fermarsi

– Velocità nell’assunzione di cibo. Ciò capita quando vengono assunte grandi quantità di cibo in un breve lasso di tempo, molto più di quanto la maggior parte delle persone farebbe in circostanze simili. Inoltre capita che il cibo non venga assaporato appieno.

– Consumo di grandi quantità di cibo senza un’effettiva fame. Capita di mangiare molto abbondantemente senza essere affamati.

-Sensazione di emozioni spiacevoli e di disagio fisico. Le persone dopo essersi abbuffate provano spesso emozioni negative verso se stessi come, vergogna, senso di colpa e disgusto. Il disagio è inoltre percepito anche fisicamente con conseguente senso di pesantezza e nausea.

Possiamo distinguere l’abbuffata ulteriormente in:

Abbuffata oggettiva ossia una vera abbuffata come descritto nelle righe precedenti

Abbuffata soggettiva ossia un’abbuffata dove la quantità di cibo ingerita non è oggettivamente eccessiva

La terapia per il disturbo

Per questo disturbo appartenente alla più vasta categoria dei disturbi del comportamento alimentare, è sicuramente necessario per la terapia e l’intervento un approccio di tipo multidisciplinare che coinvolga quindi più figure professionali. Le figure coinvolte saranno non solo lo psicoterapeuta per il percorso individuale, ma anche altre figure fondamentali come il nutrizionista e, in caso di necessità, anche lo psichiatra per affiancare una terapia farmaceutica. Spesso la famiglia può essere un alleato importante per il superamento del disturbo, un punto di riferimento importante all’interno del percorso per supportare il paziente ed aiutarlo a mettere in atto le strategie adeguate.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale nello specifico può fornire un approccio strutturato e mirato al trattamento del binge eating, aiutando i pazienti a identificare e affrontare i fattori emotivi, cognitivi e comportamentali alla base del disturbo alimentare. Il percorso si concentra sull’identificazione e sulla modifica dei pensieri distorti legati all’alimentazione, all’immagine corporea e alle emozioni negative.

Il processo terapeutico inizia insieme al paziente con una valutazione iniziale in cui si va a comprendere la storia personale, gli schemi alimentari, le credenze distorte e le emozioni coinvolte nel BED. Questa fase aiuta a personalizzare il trattamento e a identificare i fattori scatenanti specifici. Successivamente si collabora col paziente per aumentare la consapevolezza dei comportamenti alimentari disfunzionali messi in atto. Il terapeuta fornisce informazioni sulle caratteristiche del disturbo, sul ciclo binge-eating e sui rischi per la salute associati. Si prosegue con il riconoscimento di pensieri negativi legati all’alimentazione. Questo passo è fondamentale per interrompere il ciclo negativo e sviluppare nuove prospettive. Di fondamentale importanza sarà poi la gestione delle emozioni disfunzionali vissute dalla persona, si insegneranno nuove strategie di regolazione emotiva alternative all’abbuffata. Si aiuterà anche a modificare i comportamenti alimentari stabilendo insieme al paziente nuove abitudini alimentari più sane e sostenibili. L’obiettivo è sviluppare una relazione equilibrata con il cibo. 

Sono Alessia Lazzaretto, psicologa e psicoterapeuta presso Studio Progetto Vita. Se hai dubbi ed hai bisogno di supporto per gestire questa tipologia di problematiche non esitare a contattarmi.

Dott.ssa Alessia Lazzaretto

Psicoterapeuta cognitivo comportamentale

Riferimenti bibliografici:

 

  • American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition. Arlington, VA, American Psychiatric Association.
  • Christopher G. Fairburn. La terapia cognitivo-comportamentale dei disturbi dell’alimentazione. 
  • Christopher G. Fairburn. Vincere le abbuffate. Come superare il disturbo da binge eating. 
Come le relazioni del passato influenzano quelle future: alla scoperta degli stili di attaccamento

Come le relazioni del passato influenzano quelle future: alla scoperta degli stili di attaccamento

Quando parliamo di relazioni sappiamo che maneggiamo materiale delicato, a chi di noi non è mai capitato di vivere relazioni che finivano in modo simile alle precedenti? Oppure chi di noi non si è mai chiesto il perché finiva sempre con il solito tipo di partner?

Questo articolo vuole essere un primo spunto per permetterti di riflettere su te stesso, non ha assolutamente la prerogativa di ridurre in semplici categorie l’intero agire e sentire umano. 

Fatta questa necessaria premessa, ecco di cosa stiamo parlando: quando mi riferisco alle relazioni del passato non sto parlando della tua prima cotta ma della relazione che nascendo in questo mondo tu hai instaurato con la figura che si è occupata del tuo accudimento, che sia la mamma, il papà, la nonna o la babysitter, poco importa.

La teoria dell’attaccamento, elaborata da Bowlby secondo il quale le relazioni di attaccamento nell’infanzia costituiscono il prototipo di tutte le relazioni d’amore che il soggetto instaurerà nel corso della sua vita, evidenzia l’importanza del legame che si instaura tra bambino e genitore/caregiver nella strutturazione dei modelli operativi interni, ovvero quegli schemi comportamentali che saranno alla base delle relazioni future dell’adulto.

Infatti, il nostro modo di relazionarci con gli altri dipende dalla modalità appresa nel corso dell’infanzia. La risposta data dal caregiver all’esigenza del bambino, creatura debole e indifesa, di ricevere cure, protezione e attenzioni condiziona profondamente lo stile di attaccamento dell’individuo per il resto della sua vita, andando ad influenzare tutti i successivi rapporti affettivi, in particolare i legami di coppia e quelli che si instaurano tra genitore e figlio.

Cosa facilita il nostro creare “Buone relazioni”?

La capacità della figura di attaccamento primaria di comprendere e rispondere ai segnali del bambino consente a quest’ultimo di sviluppare un’affettività sana, correlata ad un’immagine positiva di sé stesso e ad un’idea di accettabilità delle proprie esigenze profonde che possono essere apertamente manifestate. In questo caso si parla di attaccamento sicuro: il bambino che riceve le giuste attenzioni matura un’immagine di sé come degno di amore e cure poiché il caregiver si dimostra disponibile e attento, prendendo in seria considerazione i suoi bisogni. Le forme di attaccamento sicuro, pur non essendo garanzia assoluta di salute mentale, sembrano conferire una sorta di resilienza emotiva.

L’indisponibilità della figura di attaccamento o un atteggiamento incoerente da parte del caregiver determinano, invece, uno sviluppo atipico del legame di attaccamento che potrà essere, a seconda dei casi, ansioso/ambivalente, evitante o disorganizzato. Forme di attaccamento insicuro possono rappresentare un fattore di rischio significativo per quanto riguarda il manifestarsi di condizioni psicopatologiche.

Ci sono quattro diversi stili di attaccamento al genitore che influenzano le nostre relazioni sentimentali:

  • attaccamento sicuro
  • attaccamento insicuro/evitante
  • attaccamento insicuro ansioso/ambivalente
  • attaccamento insicuro/disorganizzato

Quali possono essere gli effetti degli stili di attaccamento in età adulta?

Abbiamo già detto che quel che si sperimenta a livello di attaccamento in età infantile e, in particolare, nei cruciali anni del primo sviluppo si ripercuote nella vita adulta. L’individuo che abbia sviluppato un attaccamento sicuro, grazie alla presenza costante e rassicurante del caregiver, da adulto avrà una buona autostima e si orienterà verso persone in grado di instaurare con lui relazioni sane, durature, fondate sulla fiducia reciproca e prive di elementi ossessivi, tipici di situazioni affettive problematiche. 

Per quanto riguarda l’attaccamento insicuro possiamo dire, intanto, che non esiste una causalità lineare che lega un modello di attaccamento insicuro a specifici quadri disfunzionali; tuttavia, è possibile considerare questo fattore come una strategia di regolazione emozionale e di relazione interpersonale con un minor grado di adattamento che, di conseguenza, rende vulnerabile il bambino esponendolo a possibili deviazioni nelle traiettorie evolutive.

 

Nello specifico per i vari stili di attaccamento insicuro:

Gli individui che hanno sviluppato uno stile di attaccamento ansioso sono caratterizzati dalla necessità di continue conferme: costoro, infatti, sono stati oggetto di amore discontinuo da parte del proprio caregiver, dimostratosi volubile e presente a fasi alterne.

L’ansioso, quindi, è preda costante del timore di essere abbandonato, ha un’opinione molto negativa di sé ed è alla costante ricerca di rassicurazione attraverso la vicinanza e il contatto fisico.  

L’attaccamento evitante deriva dall’esperienza infantile di un genitore distante, tendente ad ignorare o addirittura a rifiutare le richieste di attenzioni del bambino.

Freddezza e distacco rappresentano uno schermo protettivo inconsapevole contro il pericolo dell’ennesimo rifiuto in età adulta, un blocco preventivo dell’emozionalità che viene repressa che comporta evidenti difficoltà relazionali.

In ultimo l’attaccamento disorganizzato è tipico di coloro che durante l’infanzia abbiano vissuto i traumi e le disregolazione emotive di una figura di attaccamento primaria non soltanto incapace di accudire il bambino, ma fonte per lui di timore.

Un attaccamento disorganizzato si associa spesso a storie di abusi, maltrattamenti, violenze e ad una condizione di profonda deprivazione.

Il bambino, in età adulta, potrà manifestare un disturbo complesso nella sfera personologica, caratterizzato da una forte instabilità emotiva e continue oscillazioni del tono affettivo. Un individuo con attaccamento disorganizzato può manifestare la tendenza a creare legami tossici al limite del patologico, spesso violenti e di tipo sado-masochistico.

Cosa si può fare in ambito psicologico/psicoterapico?

I soggetti con attaccamento insicuro possono evolvere e modificare in senso migliorativo la loro modalità relazionale disfunzionale. Ciò può avvenire sia in seguito a legami affettivi con partner sicuri, in grado di disconfermare le loro percezioni negative di sé e dell’altro, sia in seguito ad un percorso di consapevolezza delle proprie dinamiche affettive. Questo è ciò che viene definito effetto riparativo o correttivo delle esperienze relazionali.

 

La psicoterapia può rappresentare un valido aiuto per rielaborare l’esperienza vissuta e risolvere conflitti e difficoltà emotive generati dal particolare stile di attaccamento sviluppato in età infantile. La scoperta di sé e la comprensione intima del proprio passato rappresentano, infatti, la via privilegiata per alleviare la sofferenza.

 

Alla fine di questo articolo ciò che mi preme ribadire è il seguente messaggio:

LA SOFFERENZA PSICOLOGICA NON È MAI UN DESTINO SEGNATO! Ciò significa, che ciascuno di noi può decidere di lavorare sulle proprie esperienze passate per scrivere un proprio nuovo futuro.

 

Sono Veronica Griguoli, sono una psicologa e all’interno dello studio progetto vita mi occupo di percorsi di supporto psicologico rivolti a adulti e ragazzi. Spero che la lettura di questo articolo possa averti fornito una nuova visione sul mondo delle relazioni. Se hai dubbi o domande, non esitare a scriverci.

A presto!

Dott.ssa Veronica Griguoli

Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance

Il Work-Life Balance, termine inglese che indica il raggiungimento di uno stato di equilibrio tra lavoro e vita privata, è una componente fondamentale per il benessere fisico e mentale dei lavoratori e contribuisce a scongiurare l’insorgere di un “burnout”. Quest’ultimo è importante in quanto comporta una riduzione della motivazione e della produttività, e può associarsi a problemi di salute come disturbi cardiocircolatori ma anche del sonno, irritabilità, difficoltà relazionali e di concentrazione. 

Il concetto di Work-Life Balance si riferisce alla possibilità di far convivere in maniera pacifica la sfera professionale e quella privata, ambiti di vita oggi sempre meno nettamente distinti, grazie ad esempio all’introduzione dello strumento dello smart working. Quest’ultimo infatti a volte può rappresentare anche un rischio per il corretto bilanciamento dei tempi lavorativi ed extralavorativi e far sì che, se svolto a casa, il lavoro possa addirittura aumentare e occupare porzioni sempre maggiori di vita domestica e privata.

Per cercare di ridurre questo rischio, in prima battuta, è necessaria una consapevolezza su ciò che comporta maggiore stress nella nostra vita e ciò che invece allevia le nostre giornate.

In tal senso, può essere utile focalizzarsi sulle cose che riteniamo davvero importanti per noi, giorno per giorno, quando dobbiamo scegliere ad esempio tra un aperitivo con gli amici e il fare gli straordinari per la consegna di un progetto importante. 

Altro aspetto fondamentale è lasciare andare un po’ il bisogno di controllo e lasciare fare agli altri quello che non è strettamente necessario che facciamo noi, sia in ambito privato che al lavoro, concedendoci quindi del tempo libero e ritmi più sereni per svolgere le nostre attività in modo da dedicare a queste ultime la nostra piena attenzione e il valore che meritano.

Ma quindi? suggerimenti e soluzioni?

Per preservare il proprio benessere psicofisico, senza rinunciare anche alla soddisfazione in ambito lavorativo:

  • non rinunciare alle relazioni sociali, con i colleghi e con le persone all’esterno dell’ambito lavorativo;
  • godersi la possibilità di rallentare ogni tanto, dedicandosi nel tempo libero anche ad attività riposanti;
  • gestione dei limiti personali, capendo quando stiamo chiedendo troppo a noi stessi e fare in modo che gli altri rispettino tali confini;
  • parlare con i propri superiori al lavoro trasmettendo loro il concetto che meno ore non vuol dire per forza meno produttività e che quindi gli straordinari non sono sempre necessari;
  • concentrarsi sulle attività lavorative ma anche su quelle personali approcciandosi a queste ultime con attenzione e un atteggiamento fondamentalmente sereno.

Dott.ssa Diana Mabilia

Psicoterapeuta

Bibliografia

  • McCormack, N., & Cotter, C. (2013). Managing burnout in the workplace: A guide for information professionals. Elsevier.
  • McMann, P. E., Ellinger, A. D., Astakhova, M., & Halbesleben, J. R. (2017). Exploring different operationalizations of employee engagement and their relationships with workplace stress and burnout. Human Resource Development Quarterly, 28(2), 163-195.
  • Tang, X., & Li, X. (2021). Role stress, burnout, and workplace support among newly recruited social workers. Research on Social Work Practice, 31(5), 529-540.
  • Van Heugten, K. (2011). Social work under pressure: How to overcome stress, fatigue and burnout in the workplace. Jessica Kingsley Publishers.
L’identità nella coppia

L’identità nella coppia

La ricerca di relazioni e nel caso specifico del rapporto di coppia è legata a bisogni di base dell’individuo. Siamo infatti in quanto esseri umani motivati a cercare vicinanza con un altro individuo che per noi rivesta un ruolo significativo a livello emotivo, in termini di affetto e supporto. 

La coppia in particolare è un sistema complesso, che include i partner e il loro bagaglio di vissuti, aspettative e modi di vedere il mondo; queste esperienze entrano anch’esse a fare parte a pieno titolo della relazione. È proprio poi nell’incontro tra questi due mondi che avviene la nascita della coppia e la sua storia successiva. 

Il vissuto relazionale e quello individuale, che entrambi hanno luogo anche nella coppia, rivelano alcune sovrapposizioni reciproche. La coppia rappresenta infatti anche un luogo dove ritrovare la nostra identità personale e magari riscoprire vissuti che ci hanno caratterizzato in fasi precedenti della nostra vita. 

Come dire… nella relazione in qualche modo ritroviamo noi stessi; un esempio su tutti è il feedback che l’altro ci rimanda per quanto riguarda il nostro modo di essere, inclusi pregi e difetti. Di conseguenza, a seconda di come saranno i feedback che il partner ci restituisce rispetto al nostro modo di essere, svilupperemo o comunque arricchiremo di componenti l’idea che abbiamo riguardo a come siamo e a come ci rapportiamo con gli altri. Sembrerà inutile sottolinearlo, ma ovviamente questi stessi feedback andranno a influire sulla qualità della relazione di coppia, anche in termini di grado di amore, ammirazione e desiderio percepito da parte dell’altro nei nostri confronti. Ad esempio, qualora dovesse succedere che non ci sentiamo compresi o riconosciuti per quanto riguarda aspetti della nostra persona in quanto non ce li sentiamo riconosciuti dal partner, questo potrà andare a ledere la componente di intimità e fiducia che nutriamo verso di lui.

La relazione di coppia quindi funge anche da strumento di approfondimento della conoscenza di Sé e da ulteriore luogo di sperimentazione del nostro senso di efficacia e di rafforzamento dell’autostima. 

Ovviamente il rapporto è dotato di una sua reciprocità, per cui all’interno di questo processo subentrano le nostre aspettative sugli altri, che abbiamo in gran parte appreso nel corso della nostra esperienza individuale e relazionale. Quindi, come dire, non è detto che le nostre sensazioni siano sempre oggettive, bensì possono rivelarsi anche influenzate dalla nostra percezione e dai nostri schemi appresi.

Un percorso di terapia può aiutare a rivedere insieme l’evoluzione che hanno avuto questi e altri processi per individuare eventuali aspetti di “blocco” nei quali i partner possono aver perso di vista involontariamente il focus sulla propria identità o l’attenzione nei confronti di quella dell’altro e, infine, riprendere il proprio percorso di crescita insieme, ricucendo eventuali elementi di rottura verificatisi nel corso del tempo.

Dott.ssa Diana Mabilia

Bibliografia

  • Ahmad, S., Fergus, K., Shatokhina, K., & Gardner, S. (2017). The closer ‘We’are, the stronger ‘I’am: the impact of couple identity on cancer coping self-efficacy. Journal of Behavioral Medicine, 40, 403-413. 
  • Macchioni, E. (2019). Famiglie della generazione sandwich: identità di coppia e reti di sostegno. Famiglie della generazione sandwich: identità di coppia e reti di sostegno, 161-192.
  • Parise, M. (2013). Molto più di due. Costruzione dell’identità di coppia e relazioni familiari. Vita e pensiero.
COME PRENDERSI CURA DEL PROPRIO CORPO: COS’E’ IL TRAINING AUTOGENO

COME PRENDERSI CURA DEL PROPRIO CORPO: COS’E’ IL TRAINING AUTOGENO

Ben ritrovato! Sono Veronica Griguoli, sono una psicologa e un’operatrice di Training autogeno, collaboro con Studio Progetto Vita ormai da un anno e all’interno dello studio mi occupo di percorsi di sostegno rivolti sia agli adulti sia agli adolescenti. 

Ho deciso di parlare di questo tema perché sarà che siamo vicini alle vacanze estive e la mia mente è proiettata verso le goduriose ore passate a sonnecchiare all’aperto o sarà che con il caldo degli ultimi tempi qualche ora di sonno l’abbiamo persa tutti, che ho pensato che parlarti di come esista un metodo che permetta di prendersi cura del nostro corpo e del suo bisogno di riposo quando magari la frenesia o semplicemente qualche cambiamento ci porta ad essere più “attivati” del solito.  

Un occhio alla teoria, che cos’è il TA?

Schultz (1932) con il termine Training Autogeno definì un metodo di auto distensione da concentrazione psichica che consente di modificare situazioni psichiche e somatiche. 

In particolare: “il principio fondamentale del metodo consiste nel determinare, per mezzo di particolari esercizi fisiologico-razionali, una disconnessione globale dell’organismo che, in analogia con le metodologie etero ipnotiche, permette di raggiungere le realizzazioni proprie degli stati suggestivi.”

Il Training Autogeno (TA) è un allenamento mentale, un esercizio non fisico che tuttavia agisce direttamente sul nostro fisico, sulle funzioni di base del nostro corpo e nello specifico, come vedremo, sulla sua funzionalità a livello di equilibrio neurovegetativo. Possiamo dunque ragionevolmente parlare di un allenamento che avviene a livello dell’unità psico-somatica, o della relazione mente-corpo.

In particolare, con questa tecnica si lavora su tre importanti aspetti:

  • L’aumento della consapevolezza corporea
  • L’interazione tra sistema nervoso centrale e sistema nervoso periferico
  • Gli effetti neuro-psicofisiologici del TA

Consapevolezza: quanto è importante essere consapevoli anche del nostro corpo?

Per la maggior parte della nostra vita non siamo consapevoli del nostro corpo, ce ne accorgiamo solo quando quest’ultimo ci invia dei “segnali” di mancato funzionamento. Eppure, la consapevolezza corporea è una competenza di base del nostro cervello.

Possiamo parlare di consapevolezza propriocettiva ed enterocettiva: la prima riguarda la percezione cosciente dell’articolazione e tensioni muscolari, dei movimenti, della postura e dell’equilibrio; la seconda invece è la percezione cosciente delle sensazioni provenienti dall’interno del corpo come ad esempio battito cardiaco, respirazione e sazietà.

Dati gli esercizi su cui si fonda il TA, è la consapevolezza enterocettiva ad essere particolarmente rilevante. 

Val la pena ricordare che l’enterocezione è stata di recente definita da Craig (2002) come “senso della condizione fisiologica del corpo”.

Il SNP è IL NOSTRO SECONDO CERVELLO, ma quanto conta sul nostro benessere?

Siamo spinti a credere che il nostro cervello chiuso nella sua calotta cranica, non subisca interazioni di nessuna natura. Ovviamente la realtà è diversa, non solo mente e corpo interagiscono tra loro ma addirittura si influenzano in maniera reciproca. L’effetto ideomotorio detto anche effetto Carpenter (1852) è una reazione inconsapevole generata dalla mente che produce un effetto meccanico sul corpo. Poiché non si ha l’impressione di averla generata volontariamente, si può essere convinti che una forza esterna ne sia responsabile.

 

Ideoplasia: il potenziale che la mente (ideo) ha di agire sul corpo (plasia = formazione). 

 

Il termine rende quindi bene il passaggio, la connessione tra la rappresentazione mentale di un movimento e la rispettiva implementazione a livello del sistema motorio. 

Le prove scientifiche degli scienziati Faraday e Chevreul, e degli psicologi James e Hyman, hanno in effetti dimostrato che molti fenomeni attribuiti a forze paranormali o misteriose energie, sono in realtà causa di un’azione ideomotoria.

 

La svolta di Shultz per il TA è rappresentata dal fatto di aver pensato che i processi mentali potessero avere anche la capacità opposta rispetto a quella di attivare e mandare impulsi motori. L’immaginazione diviene dunque una strategia usata per ridurre gli impulsi e raggiungere rilasciamento muscolare, per “disattivare” piuttosto che attivare. Questo viene permesso attraverso un continuo scambio di informazioni tra il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso periferico. Il primo, infatti, è ovviamente coinvolto nel momento in cui ci apprestiamo a praticare volontariamente il TA e il relativo allenamento mentale, mentre il secondo è coinvolto in quanto “esecutore” delle risposte corporee volontarie (inibite) e involontarie che ne derivano.

Quali sono gli esercizi del TA? E come si collega al discorso del sonno?

  1. Body scan: permette di focalizzare l’attenzione dall’ambiente circostante al corpo.
  2. Esercizio della pesantezza: coinvolge la muscolatura striata, riduce il tono muscolare e permette di avvertire lo stato di profondo rilassamento.
  3. Esercizio del calore: coinvolge la muscolatura liscia poiché agisce sulla distensione del sistema vascolare grazie all’ideoplasia che agisce realizzando una dilatazione dei vasi sanguigni.
  4. Esercizio del cuore: il primo degli esercizi complementari, permette alla persona di prendere contatto con il proprio ritmo cardiaco, senza cercare di modificarlo.
  5. Esercizio del respiro: anche in questo caso l’esercizio mira a scoprire il senso armonioso del proprio respiro, lasciarsi cullare da questo ritmo. Il respiro autogeno presenta: una fase inspiratoria lunga e lenta; una espirazione passiva e rapida; una breve pausa. Realizzando così un andamento sinusoidale tipico del sonno.
  6. Esercizio del plesso solare: questo intreccio di ramificazioni nervose è importante poiché innerva la maggior parte degli organi addominali, Il soggetto deve prendere contatto con questa zona “interna” e “immaginare” una sorgente di calore che da essa si irradia.
  7. Esercizio della fronte fresca: quest’ultimo esercizio riconduce all’unità psico-somatica e richiama un senso piacevole di freschezza mentale, preparando la persona alla fase di ripresa.

 

LE SCARICHE AUTOGENE

Fin dalle prime fasi del T.A. si manifestano fenomeni fisiologici: scosse muscolari, formicolii, sensazioni d’asimmetria, sensazioni di gonfiamento e galleggiamento, ecc.

Possono essere disturbanti e portare a demotivazione.

Queste risposte sono l’effetto dello scarico di “tensioni” accumulate in varie aree del cervello; tale scarico avverrebbe automaticamente perché lo stato di autogenia permetterebbe l’avvio di meccanismi protettivi o di sicurezza che agirebbero in modo autonomo. 

 

LA RIPRESA 

Ogni volta che si esegue la procedura di T.A. in parte o nella sua interezza occorre effettuare una fase di ripresa. 

Questa consiste in un movimento lento delle dita dei piedi e delle mani, si aprono e si chiudono per almeno 2 volte le mani, flettere ed estendere più volte le braccia, dapprima in modo lento e poi via via più energico, flettere per almeno 2 volte le gambe, respirare profondamente, aprire gli occhi. 

Bene, siamo arrivati alla fine di questo articolo. Spero che questo argomento ti abbia incuriosito e abbia acceso una riflessione sull’importanza dell’interazione tra corpo e mente e del bisogno di consapevolezza corporea che ciascuno di noi può imparare e ampliare.

Buona Estate Consapevole!

Dott.ssa Veronica Griguoli

Psicologa

BIBLIOGRAFIA

  • Baldassarre A, Lewis C, Committeri G, Snyder AZ, Romani GL, Corbetta M. (2012) Individual variability in functional connectivity predicts performance of a perceptual task. PNAS 109(9):3516-21
  • Buckner R, Andrews-Hanna JR, Schacter DL (2008) The brain’s default network: anatomy, function, and relevance to disease. Ann NY Acad Sci 1124:1-38
  • Calì G, Ambrosini E, Picconi L, Mehling WE, Committeri G. (2015) Investigating the relationship between interoceptive accuracy, interoceptive awareness, and emotional susceptibility. Front Psychol 6:1202
  • Craig AD (2002) How do you feel? Interoception: the sense of the physiological condition of the body. Nat Rev Neurosci. 3(8):655-66
  • Craig AD (2003) Interoception: the sense of the physiological condition of the body. Curr Opin Neurobiol. 13(4):500-5
  • Critchley HD (2005) Neural mechanisms of autonomic, affective, and cognitive integration. J Comp Neurol. 493(1):154-66
  • Fox MD & Raichle ME (2007) Spontaneous fluctuations in brain activity observed with functional magnetic resonance imaging. Nat Rev Neurosci. 8(9):700-11
  • He BJ, Snyder AZ, Vincent JL, Epstein A, Shulman GL & Corbetta M (2007) Breakdown of Functional Connectivity in Frontoparietal Networks Underlies Behavioral Deficits in Spatial Neglect. Neuron 53:905-918
  • Jeannerod M (2001) Neural simulation of action: a unifying mechanism for motor cognition. Neuroimage. 14:S103-9
  • Josipovic Z, Dinstein I, Weber J, Heeger DJ (2011) Influence of meditation on anticorrelated networks in the brain. Front Hum Neurosci. 5:183
  • Kanji N & Ernst E (2000) Autogenic training for stress and anxiety: a systematic review. Complementary Therapies in Medicine 8:106–110
  • Kim DK, Lee KM, Kim J, Whang MC & Kang SW (2013) Dynamic correlations between heart and brain rhythm during Autogenic meditation. Front Hum Neurosci. 7: 414
  • Manzoni GM, Pagnini F, Castelnuovo G & Molinari E (2008) Relaxation training for anxiety: a ten-years systematic review with meta-analysis. BMC Psychiatry 8:41
  • Mehling WE, Price C,Daubenmier JJ, Acree M & Bartmess E (2012) The Multidimensional Assessment of Interoceptive Awareness (MAIA). PLoS ONE 7:e48230
  • Stanton A Meston C (2017) A Single Session of Autogenic Training Increases Acute Subjective and Physiological Sexual Arousal in Sexually Functional Women. J Sex Marital Ther. 43(7):601-617
OSTEOPATIA IN AMBITO GINECOLOGICO: LA DISMENORREA

OSTEOPATIA IN AMBITO GINECOLOGICO: LA DISMENORREA

La dismenorrea è il termine con cui si indicano i sintomi correlati al ciclo mestruale ed interessa una grandissima parte delle donne, dal menarca alla menopausa, fino all’81% in alcuni casi.

La sintomatologia comprende una varietà di disturbi che comprendono:

  • il dolore addominale crampiforme
  • la lombalgia
  • la nausea
  • il mal di testa
  • la dissenteria 
  • la stipsi
  • la pesantezza agli arti inferiori

La dismenorrea può essere:

  • primaria (tipologia più frequente), si presenta fin dalla prima mestruazione e non è causata da alcuna patologia specifica. Può attenuarsi con il passare degli anni e scomparire a seguito della prima gravidanza.
  • secondaria, è legata a patologie ginecologiche come l’endometriosi, fibromi uterini e adenomiosi uterina. Inizia durante l’età adulta a meno che non sia causata da malformazioni congenite.

Le cause della dismenorrea primaria non sono state ancora chiarite, sembra avere un’origine multifattoriale in cui un ruolo importante sembra essere svolto dalle prostaglandine (dolore conseguente alle contrazioni uterine indotte dalle prostaglandine e riduzione del flusso ematico). Nella dismenorrea secondaria è possibile identificare un meccanismo anatomico scatenante il dolore in base al tipo di malattia pelvica presente.

La diagnosi di dismenorrea viene effettuata dal medico specialista ginecologo, il quale chiede alla paziente di descrivere i sintomi avvertiti ed esamina lo stato di salute degli organi riproduttivi attraverso la visita e l’ecografia transvaginale.

In caso di sospetta dismenorrea secondaria possono essere prescritti ulteriori accertamenti (risonanza magnetica, isteroscopia, laparoscopia).

In alcune aree geografiche quasi una donna su tre è costretta ad assentarsi per un paio di giorni al mese dalla scuola o dal lavoro. Inoltre è una condizione così presente nella nostra società, che spesso le donne scelgono di non parlarne nemmeno con il loro ginecologo o medico di base, credendo che quella sia una condizione implicita dell’essere donna.

In caso di dismenorrea primaria l’unico approccio terapeutico convenzionale possibile è quello a base di farmaci antinfiammatori non steroidei, che aiutano a contrastare il dolore, o di anticoncezionali. La pillola, infatti, impedisce l’ovulazione e, quindi, riduce l’intensità degli spasmi dell’utero. Spesso inoltre si ricorre alla supplementazione di magnesio (che riduce gli spasmi muscolari) in fase pre-mestruale.

Nel caso della dismenorrea secondaria la terapia più adatta dipende dalla patologia associata ai dolori.

La medicina Osteopatica può essere un valido alleato nel ridurre il dolore mestruale e nel miglioramento dei fattori associati. Il trattamento manipolativo osteopatico, interagendo con l’attività neurovegetativa, può migliorare la concentrazione delle sostanze pro infiammatorie responsabili del dolore mestruale. Inoltre può migliorare la congestione linfatica pelvica garantendo una corretta biomeccanica del bacino, della colonna lombare e alleviando le tensioni muscolari dell’addome e del pavimento pelvico, consentendo alla donna di vivere con maggiore serenità la propria quotidianità.

Il trattamento osteopatico si pone quindi come un approccio sicuro, efficace e complementare ad altre terapie seguite dalla Paziente per il trattamento della dismenorrea.

Andrea Viale DO – Osteopata

QUAL È IL TUO STILE DI COMUNICAZIONE? SCOPRILO TROVANDO IL TUO IDENTIKIT!

QUAL È IL TUO STILE DI COMUNICAZIONE? SCOPRILO TROVANDO IL TUO IDENTIKIT!

Ben ritrovat* sono sicura che questo titolo ti ha incuriosito e che per un attimo ti sia chiesto che ci faceva un identikit in un articolo dello studio… tranquillo non ci siamo trasformati in investigato!

In questo articolo che spero leggerai dopo quello della dott.ssa Mabilia sulla comunicazione (https://studioprogettovita.it/?p=2425 ), vorrei parlarti proprio di STILE, in effetti ciascuno di noi ha un proprio stile di comunicazione.

QUANTI STILI ESISTONO?

La risposta esatta potrebbe essere molti ma in generale si è soliti dividere gli stili di comunicazione in tre tipi:

  1. Stile passivo
  2. Stile aggressivo
  3. Stile assertivo

Sono sicura che leggendo qua e là avrai già sentito parlare di questi stili o comunque ti torneranno familiari le parole aggressivo/passivo/assertivo/manipolatorio.

Proverò quindi a farti una breve rassegna di questi stili e soprattutto ti aiuterò a svelare quello che è l’identikit di ciascun stile di comunicazione.

LO STILE PASSIVO

Le persone con questo stile comunicativo, non rispettando pienamente se stesse, non riescono a farsi rispettare nemmeno dagli altri: difficilmente prendono una propria posizione (e se ce l’hanno, la tengono ben nascosta), poiché non sono in grado di reggere il confronto, in quanto insicuri.

Seguono sempre il “gregge” e si fanno facilmente manipolare. In altre parole, subiscono la vita invece di darle una direzione. 

La persona passivo, di solito, è una persona molto attenta agli altri, dai quali si lascia condizionare e influenzare, anche al di là della propria volontà.

Di fatto, tende a non opporsi quando viene aggredito, a lasciare correre, anche troppo. Il suo motto è: “basta non litigare” e in nome di questa “pace”, accetta e subisce quanto le viene imposto da altri.

Il suo identikit

Caratteristiche tipiche dell’individuo passivo:

  • Non esprime mai le sue opinioni. “Dimmi tu, a me va bene tutto” è la frase che ripete con maggior frequenza il soggetto passivo. Il suo obiettivo è quello di ottenere l’approvazione di tutti, evitando di farsi ipotetici nemici. Dietro questo comportamento accondiscendente si nasconde ovviamente una forte insicurezza.
  • Non reagisce quando viene trattato male. Per rendere meglio l’idea, potremmo definire il soggetto passivo come il classico “cagnolino al guinzaglio”, senza avere reazioni.
  • Durante un litigio si sente in colpa. Quando riceve una critica o litiga con qualcuno, in automatico crede di aver torto e si sente in colpa.
  • Scende spesso a compromessi per evitare i conflitti. Le persone passive cercano di evitare ogni forma di scontro e sono addirittura disposte a scendere a compromessi svantaggiosi.
LO STILE AGGRESSIVO

La persona aggressiva sembra essere attenta solo ai propri bisogni, se ne frega degli altri, traccia la rotta verso ciò che desidera e spazza via tutto quello che c’è in mezzo, come se non esistesse, come se non avesse diritti.

Chi adotta questo stile relazionale è in guerra, continuamente. Ha l’abitudine ad attaccare e si aspetta che gli altri facciano lo stesso nei suoi confronti. Proprio per questo tende a vivere continuamente in allerta come se fosse sempre in trincea, difendendo quanto conquistato e temendo inconsciamente l’arrivo di qualcuno che “potrebbe menare più forte”.

Il suo motto è “O pesti, o vieni pestato”.

Il suo identikit:
  • Discutere frequentemente con gli altri. È fortemente critico verso tutte le azioni che non rientrano nel suo modo di vivere;
  • Pensare che gli altri si prendano troppe libertà e debbano essere richiamati all’ordine per restare al loro posto;
  • Essere tendenzialmente egoista e mettere sempre in primo piano le proprie esigenze, calpestando quelle degli altri;
  • Essere in forte competizione con tutti (nel senso negativo del termine);
  • Mettere in cattiva luce gli altri per emergere.

Forse l’aggressivo potrà anche pensare che il proprio stile relazionale possa fargli ottenere quello che vuole, ma di fatto, egli si pone spesso su una posizione attacco/difesa e questo può generare delle conseguenze che minano il rispetto e la fiducia reciproca. In tal senso, le persone che hanno a che fare con lui/lei possono serbargli rancore e imparare ad evitarlo oppure ad opporsi.

LO STILE ASSERTIVO

Una persona assertiva è colei che mostra sicurezza nel sostenere le proprie opinioni.

Non a caso l’assertività è ritenuta una delle caratteristiche chiave delle persone di successo che stanno bene con se stesse: essere assertivi vuol dire essere in grado di comunicare in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e le proprie opinioni, senza tuttavia prevaricare l’altro.

Il suo identikit:

Una persona assertiva è in grado di esprimere ciò che pensa, sa farsi valere e farsi rispettare. Assertivo è infatti colui che mostra in particolare: decisione, determinazione e risolutezza.

Essere assertivi significa quindi aver trovato quella famosa giusta via di mezzo tra le due polarità opposte, appena descritte: l’aggressività e la passività.

Questo perché l’assertività è prima di tutto un equilibrio, mentre ciascuno dei due stili visti in precedenza tende all’eccesso: l’aggressivo calpesta gli altri e il passivo si fa calpestare. In questo modo, nessuno di questi due approcci rappresenta infatti un modello ideale per relazionarsi in modo efficace agli altri.

L’assertivo, invece, evita di lasciarsi trascinare dalla corrente incontrollata degli eventi, ma al contrario li domina e li gestisce con energia ed ingegno, riuscendo in questo modo a esprimere,  sempre il meglio di sé stesso e delle proprie capacità.

Visto che sei arrivato fino alla fine di questo articolo, sono pronta a lasciarti tre piccoli suggerimenti per imparare subito ad essere più assertivo:

  • IMPARARE AD ACCETTARE LE CRITICHE.
  • IMPARARE A PADRONEGGIARE I CONFLITTI.
  • FAR PRATICA NEL DIRE NO.

 

Dott.ssa Veronica Griguoli

Bibliografia e sitografia:

Anchisi, R., Dessy, G., Mia (2018). Manuale di assertività. Teoria e pratica delle abilità relazionali: alla scoperta di sé e degli altri.

Nanetti, F. (2018). Assertività ed emozioni. Manuale di formazione integrata alla comunicazione efficace.

Giusti, E., Testi, A. (2018). L’assertività. Vincere quasi sempre con le 3 A.

Algeri D. (2019). Il tuo stile relazionale è passivo, aggressivo e assertivo? 

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) e l’approccio in Medicina Osteopatica

La Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS) e l’approccio in Medicina Osteopatica

In precedenza chiamata “colite spastica” o “disturbi gastrointestinali funzionali” o “colon irritabile”, è un disturbo dell’interazione intestino-cervello comune e debilitante. Interessa circa il 10% della popolazione, con un tasso più alto di prevalenza dai 20 ai 50 anni colpendo soprattutto il di sesso femminile. 

Si caratterizza attraverso la cronicità (sintomo insorto almeno 6 mesi prima della diagnosi) di un fastidio o dolore addominale ricorrente (cioè va e viene ad andamento fluttuante per almeno 3 giorni al mese negli ultimi 3 mesi) con almeno due delle seguenti caratteristiche

relazione alla defecazione (il dolore migliora dopo l’evacuazione), associazione con un cambiamento nella frequenza delle feci (intestino stitico, diarroico o misto, cioè alternanza tra stipsi e diarrea) o associazione con un cambiamento nella consistenza delle feci (criteri Diagnostici Internazionali di ROMA IV).

 

Essendo per definizione una sindrome (dal gr. syndromḗ “confluenza”, in medicina, un complesso più o meno caratteristico di sintomi, senza però un preciso riferimento alle sue cause e al meccanismo di comparsa) non è riconoscibile un singolo fattore scatenante ne la fisiopatologia è chiara, bensì è la combinazione di fattori fisiologici e psicosociali a generare e mantenere il disturbo. Non ci sono infatti cause organiche rilevabili mediante esami di laboratorio, esami di imaging o anatomopatologici.

 

Dal lato psico-sociale possiamo trovare atteggiamenti aberranti nei confronti delle malattie (la persona esprime il conflitto emotivo come disturbo gastrointestinale, solitamente in forma di dolore addominale), aspetti cognitivi ed emotivi (il disturbo è stato spesso considerato per molto tempo come puramente psicosomatico). Alcuni pazienti hanno disturbi d’ansia, depressione, disturbi di somatizzazione e si deve ricercare la presenza di problemi psicologici non risolti, inclusa la possibilità di violenze sessuali o fisiche.

 

Dall’altro lato si riscontrano fattori biologici, come la predisposizione e la suscettibilità individuale, alterazioni della motilità del tratto gastro intestinale (esagerato riflesso gastro-colico post-prandiale, alternanza stipsi-diarrea), la sensibilità dei visceri (iperalgesia viscerale) da rimodellamento delle vie neurali nell’asse intestino-cervello (brain-gut axis), la percezione soggettiva del dolore, l’alterazione della flora batterica (permeabilità intestinale, regime alimentare ricco di FODMAPs) ed infezioni intestinali (gastro enterite acuta). 

La situazione inoltre può essere amplificata dal punto di vista sintomatologico in presenza di intolleranze ed allergie alimentari, di un utilizzo cronico di farmaci (es. antinfiammatori, antibiotici) e di eventi psico-fisici stressanti. Il nostro intestino è considerato il nostro “secondo cervello”, vista la continua comunicazione con il nostro “primo cervello”. Per questo motivo, molti eventi stressanti a livello psichico si riflettono sull’intestino, e viceversa (problemi addominali che causano stress psicologici). 

Spesso i pazienti dichiarano una riduzione della qualità della vita e circa il 60% di essi lamenta anche debolezza ed affaticamento. La sindrome si presenta spesso associata con altri disturbi gastro intestinale come la dispepsia funzionale e la malattia da reflusso gastroesofageo, così come con altre patologie, inclusa la malattia celiaca. Tra i vari sintomi associabili alla Sindrome da Intestino Irritabile troviamo sintomi riconducibili a quadri di cefalea e dolore all’articolazione temporo-mandibolare, dolore dorso lombare, ansia, depressione, fibromialgia, fatica cronica, cistite, dolore pelvico cronico.

 

La diagnosi è clinica medica e gastro-enterologica ad esclusione, dal momento che i sintomi sono presenti ma non è presente una patologia d’organo che possa spiegarne la causa. 

Esistono però sintomi che possono necessitare di esami diagnostici specifici a cura del medico di base o dello specialista di riferimento:

  • insorgenza dopo i 50 anni di età
  • dimagrimento inspiegabile
  • anemia
  • febbre
  • sangue nelle feci
  • dolore che non migliora dopo l’evacuazione

Fra i test diagnostici utili per eseguire una corretta diagnosi differenziale vi sono:

  • Colonscopia: esame morfologico dell’intestino crasso con prelievi bioptici/asportazioni polipi
  • Breath test al lattosio: esame per verificare presenza o assenza di enzima Lattasi che digerisce zuccheri (se assente i sintomi possono essere riconducibili a intolleranza al lattosio)
  • Esami del sangue per la Celiachia: esame per verificare indici infiammatori e antigeni per la malattia celiaca (se presenti i sintomi possono essere riconducibili allergia al glutine)
  • Tomografia computerizzata: per escludere patologie d’organo in ambito addominale extra colico

 

Il trattamento in Medicina Convenzionale è sintomatico e consiste nell’assunzione di farmaci, inclusi anticolinergici e agenti attivi sui recettori serotoninergici.

Di fondamentale importanza un’adeguata educazione alimentare supportata dal Nutrizionista di riferimento permette di evitare cibi che producono gas intestinale e quelli che inducono diarrea. 

L’uso di probiotici per trattare la sindrome dell’intestino irritabile è aumentato negli ultimi anni data l’importanza del microbioma intestinale in questo disturbo.

La terapia psicologica di tipo cognitivo-comportamentale ha evidenziato la sua importanza nella gestione degli aspetti psico sociali inerenti la sindrome e permettendo di affrontare il disagio fisico gestendo le implicazioni emotive e comportamentali che esso porta con sé.

 

In Medicina Osteopatica, mettendo in particolare risalto la bidirezionalità comunicativa tra primo e secondo cervello e considerando la peculiare capacità del sistema nervoso autonomo (ortosimpatico, parasimpatico ed enterico) di gestire correttamente o meno lo stato infiammatorio intestinale locale e globale, si valutano le differenti aree del corpo che mancano di una corretta integrazione e che possono generare una manifestazione sintomatologica correlabile.

Nei casi di Sindrome dell’Intestino Irritabile l’Osteopata andrà ad indagare le componenti disfunzionali relative al sistema neurovegetativo di competenza, all’area vertebrale dorso lombare e sacrale associate, al diaframma toracico e pelvico e la loro relazione, all’area cranio cervicale deputata al controllo vagale, alle strutture viscerali (in particolare alle componenti del piccolo e grande intestino), alle aree linfatiche e di connettivo connesse al MALT (sistema immunitario linfoide associato alle mucose).

L’approccio all’IBS con l’Osteopatia è quello di andare a generare, attraverso le più appropriate tecniche viscerali e connettivali, un processo terapeutico di autocorrezione che possa ridurre le tensioni e i sintomi dolorosi a livello addominale, ripristinare il drenaggio linfatico e venoso per aiutare la corretta motilità intestinale e riequilibrare il sistema nervoso autonomo enterico favorendo l’adeguata comunicazione somato-viscerale e viceversa.

Andrea Viale DO mROI – Osteopata

BIBLIOGRAFIA

 

  • Lacy BE, Pimentel M, Brenner DM, et al: ACG Clinical Guideline: Management of irritable bowel syndrome. Am J Gastroenterol 116(1):17–44, 2021
  • Grundmann O, Yoon SL. Irritable bowel syndrome: epidemiology, diagnosis and treatment: an update for health-care practitioners. J Gastroenterol Hepatol 2010 Apr;25(4):691-9.
  • Zhou Q, Verne GN. New insights into visceral hypersensitivity clinical implications in IBS. Nat Rev Gastroenterol Hepatol 2011 Jun;8(6):349-55.
  • Törnblom H, Van Oudenhove L, Sadik R et al. Colonic transit time and IBS symptoms: what’s the link? The American Journal of Gastroenterology 2012;107:754-60.
  • Camilleri M, Lasch K, Zhou W. Irritable bowel syndrome: methods, mechanisms, and pathophysiology. The confluence of increased permeability, inflammation, and pain in irritable bowel syndrome. Am J Physiol Gastrointest Liver Physiol 2012;303:G775-G85.
  • Randa Mostafa. Rome III: The functional gastrointestinal disorders, third edition, 2006. World J Gastroenterol 2008 April 7;14(13):2124-5.
  • Hussain Z, Quigley EM. Systematic review: complementary and alternative medicine in the irritable bowel syndrome. Aliment Pharmacol Ther 2006; 23:465-71.
  • WHO Benchmarks for training in osteopathy, 2010.
  • Barral JP, Mercier P, Roth J. Visceral manipulation. Eastland Pr. 1988.
  • Tozzi P, Bongiorno D, Venturini C. Low back pain and kidney mobility: local osteopathic fascial manipulation decreases pain perception and improves renal mobility. J Body Mov Ther 2012 Jul;16(3):381-91.
  • Müller A, Franke H, Resch KL, Fryer G. Effectiveness of osteopathic manipulative therapy for managing symptoms of irritable bowel syndrome: a systematic review. Am Osteopath Assoc 2014 Jun;114(6):470-9.
  • Collebrusco L, Lombardini R. What about OMT and nutrition for managing the irritable bowel syndrome? An overview and treatment plan. Explore (NY) 2014 Sep-Oct;10(5):309-18. M
L’elevata sensibilità o ipersensibilità

L' elevata sensibilità o ipersensibilità

Le persone Altamente Sensibili, definite PAS, sono dotate di un’emotività più sviluppata. Ciò è dovuto a un tratto della personalità che porta queste persone a una elaborazione più profonda e ad una maggiore reattività emotiva.

L’ alta sensibilità è una caratteristica innata e non è un disturbo; infatti, con le dovute attenzioni, rappresenta una via preferenziale per lo sviluppo di una maggiore autoconsapevolezza e apertura verso gli altri. Occorre, inoltre sottolineare che, l’alta sensibilità differisce dall’ipersensibilità, la quale invece riflette una condizione di fragilità emotiva. Pertanto, non è detto che le persone altamente sensibili siano per forza ipersensibili. 

L’ alta sensibilità incide sulla percezione degli stimoli e sul modo di rispondere ad essi, a livello di stati interiori e relazioni interpersonali. Le persone altamente sensibili tendono ad essere più riflessive, ponderate e sensibili nel rilevare gli stimoli ambientali, motivo per cui spesso riportano maggiore stress e sensibilità agli stimoli.

La ricerca ha individuato alcune principali caratteristiche degli individui altamente sensibili, tra le quali:

  • Profondità di elaborazione degli stimoli e quindi elevata attenzione ai dettagli;
  • Overstimolazione del sistema nervoso dovuto a una minore tendenza a filtrare gli stimoli in entrata;
  • Intuizione, dovuta a una capacità di rilevare facilmente gli elementi che li circondano;
  • Empatia e reattività emotiva.

Da qui, discendono alcuni dei comportamenti più frequenti, e a volte motivo di difficoltà, nelle persone con elevata sensibilità, come ad esempio: 

  • Reazione eccessiva agli stimoli;
  • Comportamenti impulsivi;
  • Vulnerabilità alle opinioni altrui.

Come posso fare per gestire l’alta sensibilità?

In alcuni casi, la SPS può aumentare il rischio di disturbi psicosomatici, ansiosi e dell’umore.

La persona con alta sensibilità dovrà imparare a utilizzare alcune accortezze, come:

  • riconoscere e gestire le emozioni quando queste si fanno troppo intense;
  • fare uno sforzo per discernere le situazioni e le relative reazioni appropriate;
  • distogliere la propria attenzione dal pensiero riguardante il giudizio degli altri;
  • evitare di rimuginare su pensieri negativi;
  • mantenere un buon livello di serenità ed equilibrio interiori.

In questa direzione, è a volte fondamentale affidarsi a uno psicologo che supporti la persona nel gestire gli aspetti sopra menzionati e in generale il proprio benessere personale.

Dott.ssa Diana Mabilia

Psicologa del lavoro

BIBLIOGRAFIA

  • Aron, E. N., & Aron, A. (1997). Sensory-processing sensitivity and its relation to introversion and emotionality. Journal of personality and social psychology, 73(2), 345.
  • Lionetti, F., Aron, A., Aron, E. N., Burns, G. L., Jagiellowicz, J., & Pluess, M. (2018). Dandelions, tulips and orchids: Evidence for the existence of low-sensitive, medium-sensitive and high-sensitive individuals. Translational psychiatry, 8(1), 1-11.
  • Greven, C. U., Lionetti, F., Booth, C., Aron, E. N., Fox, E., Schendan, H. E., … & Homberg, J. (2019). Sensory processing sensitivity in the context of environmental sensitivity: A critical review and development of research agenda. Neuroscience & Biobehavioral Reviews, 98, 287-305.
  • Aron, E. N., Aron, A., & Jagiellowicz, J. (2012). Sensory processing sensitivity: A review in the light of the evolution of biological responsivity. Personality and Social Psychology Review, 16(3), 262-282.
Chi è il CAREGIVING familiare?

Chi è il CAREGIVING familiare?

l termine “caregiver“ si riferisce a tutti i familiari “che si prendono cura” di un loro familiare ammalato.
La maggior parte dei “caregiver” assistono familiari con demenza e sono prevalentemente donne. Il resto è rappresentato ad esempio dai genitori di figli con disabilità, da mariti e mogli che assistono il proprio partner, etc. nelle attività che riguardano la mobilizzazione, l’alimentazione e l’igiene, la rilevazione di eventuali stati di malessere e la somministrazione di farmaci.

Caregiving stress:

L’attività di assistenza rappresenta un impegno importante a livello di gestione organizzativa ma anche di vissuti emotivi, che a loro volta impattano a livello psicofisico su diverse sfere della vita.

Gli stati d’animo più spesso riportati dai caregiver includono:

  • rabbia, legata a stanchezza psicofisica, senso di ingiustizia, impotenza e in alcuni casi timore di compiere atti aggressivi 
  • senso di colpa e di inutilità
  • tristezza legata alla perdita della condizione di salute, riduzione degli obiettivi e del senso di progettualità
  • vergogna, legata ad esempio al giudicarsi non all’altezza del compito di assistenza
  • invidia nel confronto con altre persone e famiglie.

L’entità dell’impegno legato al caregiving dipende dal numero di ore dedicate alla cura, tipo di invalidità, presenza di una rete di supporto e dalle capacità relazionali del caregiver stesso.
Il caregiver necessita di attenzione e supporto in quanto esposto a una condizione di rischio di disagio psicofisico. Il “lavoro” di assistenza, infatti, impatta direttamente sul funzionamento quotidiano del caregiver (stanchezza, ansia, disturbi psicosomatici, etc.) anche in termini di assunzione di un’alimentazione scorretta, sedentarietà, rinuncia alla propria vita sociale e, in generale, scarsa attenzione al proprio stato di salute. Tale situazione di malessere porta talvolta il caregiver a desiderare di sottrarsi alla condizione di assistenza del familiare ammalato, pensiero che a sua volta lo conduce a sperimentare sensi di colpa nei confronti del proprio caro.

Sindrome del burnden

La condizione di stress, o burden, del caregiver può portare quest’ultimo a uno stato di esaurimento psicofisico che si caratterizza per un vissuto di disagio psicologico, dovuto all’intreccio tra carico oggettivo (ore di assistenza, entità della malattia e del supporto necessario..) e soggettivo (vissuto di inadeguatezza, senso di privazione dei propri spazi, apatia…), legati all’attività di assistenza. Lo stress cronico può a sua volta incidere negativamente sul funzionamento del sistema immunitario e sullo sviluppo di sintomi psichici come ansia e depressione, con un generale peggioramento del benessere e della qualità di vita, fino a rendere necessario per il caregiver ricorrere a terapie mediche e/o psicoterapeutiche.

Come gestire il burden?

Diversi studi scientifici hanno evidenziato la presenza di condizioni protettive nei confronti del burden.
Tra queste, l’autoefficacia percepita nello svolgimento del proprio ruolo di assistenza e la capacità di resilienza utile a tollerare l’evento di malattia. Inoltre, è importante per il caregiver poter fare affidamento a una buona rete di supporto sociale e l’essere in possesso di adeguate abilità sociali. 

Per prevenire stati di stress elevati, il caregiver stesso può adottare strategie “preventive”. Tra queste, prendere consapevolezza di pensieri, emozioni e sensazioni di disagio che lo pervadono, prestare attenzione alla cura di sé e della propria salute, prendersi dei momenti di pausa per ricaricare le energie, curare le relazioni sociali e chiedere supporto in caso di necessità.

In tale direzione, è quindi importante imparare a gestire il proprio grado di stress, ad esempio prendendosi cura dei propri bisogni, svolgendo un’adeguata attività sociale, coltivando i propri interessi, svolgendo attività fisica e dedicandosi ad attività rilassanti.

Nel caso in cui le strategie di fronteggiamento individuali non risultino sufficienti al caregiver per fronteggiare il proprio stato di malessere, può rendersi necessario chiedere aiuto a un professionista della salute mentale. Studi scientifici indicano, infatti, che un percorso psicoterapeutico può favorire un migliore grado di regolazione emotiva e quindi fornire un supporto al benessere psicofisico del caregiver.

Diana Mabilia

Bibliografia:

  • Schulz, R., & Martire, L. M. (2004). Family caregiving of persons with dementia: prevalence, health effects, and support strategies. The American journal of geriatric psychiatry, 12(3), 240-249.
  • Ory, M. G., Hoffman III, R. R., Yee, J. L., Tennstedt, S., & Schulz, R. (1999). Prevalence and impact of caregiving: A detailed comparison between dementia and nondementia caregivers. The Gerontologist, 39(2), 177-186.
  • Tremont, G. (2011). Family caregiving in dementia. Medicine and Health, Rhode Island, 94(2), 36. Adelman, R. D., Tmanova, L. L., Delgado, D., Dion, S., & Lachs, M. S. (2014). Caregiver burden: a clinical review. Jama, 311(10), 1052-1060.
  • Isa, S. N. I., Ishak, I., Ab Rahman, A., Saat, N. Z. M., Din, N. C., Lubis, S. H., & Ismail, M. F. M. (2016). Health and quality of life among the caregivers of children with disabilities: A review of literature. Asian journal of psychiatry, 23, 71-77.