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Ti manca un “BUON” metodo di studio? Ecco a te 3 consigli utili!

Ti manca un "BUON" metodo di studio? Ecco a te 3 consigli utili!

Studiare:

“Applicarsi all’apprendimento e all’approfondimento di uno o più campi o settori di conoscenza e di esperienza, o anche di un singolo argomento”

(Vocabolario Treccani)

Semplice no? 

Lo studio e l’organizzazione dei compiti non sempre risultano essere cosa facili da gestire. Molti di voi possono aver pensato: “Ora basta, non ce la faccio più”; è proprio per questo motivo che sono qui, per vedere insieme alcune strategie che possono tornare utili nel momento in cui è opportuno fare i compiti o studiare.

Ognuno di noi, durante la nostra infanzia e adolescenza, o nel mondo universitario si è trovato di fronte a libri e libri da studiare e in qualche modo è riuscito a portare a termine il proprio dovere, anche con molta fatica. È bene quindi riuscire ad organizzare lo studio in modo che esso risulti essere meno pesante e lungo nel tempo, trovando il proprio buon metodo di studio. 

Partiamo con il dare una definizione a “metodo di studio”; per metodo di studio s’intende l’utilizzo di strategie, strumenti e tecniche utili all’apprendimento e che in qualche modo facilitano il nostro apprendere. All’interno del metodo di studio sono tanti gli aspetti che troviamo, ad esempio:

  • Pianificazione
  • Organizzazione del materiale e dello spazio di lavoro;
  • Strategie di lettura e scrittura;
  • Motivazione allo studio;
  • Uso di mappe concettuali o mentali.

Ecco allora, 3 consigli per aiutarti a costruire o migliorare il tuo metodo:

  • Costruzione di un planning settimanale o giornaliero per avere una maggiore consapevolezza degli impegni e del quantitativo di studio;
  • Allontanare dal proprio luogo di studio fonti di distrazioni: televisione, cellulare, videogiochi;
  • Costruisci mappe mentali o mappe concettuali utilizzando grafiche o immagini.

Infine, è importante sapere che ogni bambino e ogni ragazzo è unico e con caratteristiche singolari ed è  proprio per questo che non esiste un metodo di studio universale uguale a tutti. Ogni soggetto mette in campo proprie tecniche cognitive e proprie capacità metacognitive. Noi però, possiamo aiutarlo a trovare la strada giusta.

Per altri consigli vieni a trovarci. Ti aspettiamo!

Dott.ssa Ghiraldini Giorgia

Educatore sociopedagogico

Anamnesi: ma perché tutte queste domande se ho “solamente” un dolore cervicale?

Anamnesi: ma perché tutte queste domande se ho "solamente" un dolore cervicale?

Dal greco anámnēsis, che significa ricordo. 

In effetti il ricordare, attraverso un’adeguata serie di domande, rappresenta il modo migliore per ottenere informazioni importanti dal Paziente e, oltretutto, è un aspetto fondamentale di quella che può essere definita la relazione medico – paziente. 

Relazione in quanto l’Osteopatia è un percorso di cura per il miglioramento dello Stato di Salute generale e non semplicemente per la risoluzione del sintomo doloroso pur essendo esso stesso il motivo di consulto, quindi la comunicazione attraverso le domande anamnestiche rappresenta il primo passo fondamentale di questo cammino. 

In Osteopatia, l’anamnesi, che avviene durante la prima visita, è la raccolta dalla voce diretta del Paziente o dei suoi familiari (per esempio i genitori nel caso di un neonato o di un bambino), di tutte quelle informazioni e sensazioni che possono aiutare l’Osteopata a indirizzarsi verso una diagnosi. 

Insieme all’esame obiettivo e alla valutazione osteopatica manuale, è di fondamentale ausilio nella formulazione della diagnosi osteopatica poiché permette di ricostruire le modalità di insorgenza ed il decorso della sintomatologia in atto.

Solitamente si divide in più parti, un’anamnesi familiare e una personale, quest’ultima si divide a sua volta in fisiologica, patologica prossima e patologica remota.

L’anamnesi patologica prossima riguarda il disturbo per cui il paziente consulta l’Osteopata. 

Vengono indagate le modalità di insorgenza dei disturbi, il momento esatto della loro comparsa, la localizzazione, intensità, carattere e irradiazione del dolore; le funzioni fisiologiche di base come il ritmo sonno veglia, la diuresi, il transito, l’esito di eventuali esami eseguiti precedentemente e l’esito della terapia ove essa sia già stata effettuata. Vengono raccolte inoltre altre informazioni riguardo altri segni e sintomi. Tutto ciò non rappresenta una sterile raccolta dati ma risulta essere un processo razionale per dar inizio alle fasi di diagnosi differenziale, valutazione osteopatica, diagnosi osteopatica e trattamento.

L’anamnesi patologica remota consiste invece nell’indagine cronologica sulle malattie, i traumi ed interventi chirurgici dal Paziente nel passato. Ad esempio recidive di alcune malattie (o manifestazioni a distanza) o cronicizzazioni di altre patologie potrebbero essere responsabili della sintomatologia attuale del Paziente.

Il ricordo di tutto questo porta l’Osteopata a porre domande che interpretino i concetti medico clinici ma anche i principi filosofici dell’Osteopatia in un’ottica di funzionalità integrata e correlazione anatomica dei vari sistemi del corpo, andando a ipotizzare prima dell’esame obiettivo manuale alcuni scenari fisiopatologici che potrebbero aver fatto generare “solamente” quel dolore cervicale per il quale il Paziente si è presentato in studio.

Andrea Viale DO mROI – Osteopata

Come sopravvivere allo stress? Le mie 3 R.

Come sopravvivere allo stress? Le mie 3 R.

Ben ritrovato/a, spero che finora gli articoli letti ti siano stati d’aiuto. Io sono la dott.ssa Griguoli Veronica e in questo articolo vorrei parlarti di uno degli argomenti più comuni e in parte bistrattati, lo stress.

Vorrei partire nel definire che cos’è lo stress Selye, un medico americano lo definisce come “risposta aspecifica dell’organismo ad ogni richiesta effettuata su di esso” (Selye, 1976). Nella nostra vita di tutti i giorni sperimentiamo gli effetti psicofisici a questa stimolazione. In particolare quando siamo di fronte a un qualsiasi tipo di stimolo positivo (come per esempio la nostra festa di compleanno o il giorno del nostro matrimonio) o negativo (come per esempio un licenziamento, una pandemia o una perdita) il nostro organismo reagisce iniziando a produrre dapprima ormoni che stimolano un’azione come per esempio l’adrenalina o la noradrenalina in questo modo iniziamo ad avere il cuore che batte molto forte, il respiro corto, i muscoli tesi e così via, tutto è in funzione del prepararci ad affrontare la situazione. 

Cosa accade però se questo stimolo stressante dura troppo?

Ciò che contraddistingue uno stress buono (eustress) da uno stress “cattivo” (distress) è la sua durata piuttosto che la sua intensità. Stress molto intensi ma che hanno una durata limitata sono meglio tollerati dal nostro organismo rispetto a stimoli che seppur poco intensi perdurano per molto tempo arrivando a cronicizzarsi. È in quest’ultimo caso che ci troviamo quando avvertiamo i seguenti sintomi:

  • Stanchezza mentale e fisica  persistente che non passa dopo aver dormito,
  • Difese immunitarie basse, che ci espongono più facilmente a infezioni e malattie,
  • Sonno disturbato
  • Frequenti emicranie e tensioni muscolari
  • Confusione mentale
  • Difficoltà di memoria e concentrazione, ecc.

Come puoi vedere di fronte a questo tipo di sintomatologia, la sensazione è che il sistema sia andato verso una iniziale iperattivazione in cui come quando suona una sirena d’allarme ha utilizzato tutte le proprie risorse per far fronte alla situazione stressogena e poi terminate queste risorse, si sia avviato verso quella che viene definita fase di esaurimento in cui diamo fondo anche alle nostre ultime riserve.

Benché le cose siano in realtà anche un po’ più complesse di quello che ti ho descritto in queste poche righe, ti basta sapere che “recuperare” dopo un periodo di stress non solo è possibile ma è NECESSARIO e per questo ti svelo le mie 3 R da ricordare quando ti troverai nella prossima situazione stressante: 

  • Riconosci
  • Rallenta
  • Respira

 

Dott.ssa Griguoli Veronica

Psicologa, operatrice di biofeedback e training autogeno

Bibliografia:

Selye, H. (1974). Stress without distress. J. B. Lippincott, Philadelphia.

Selye, H. (1976). Stress in health and disease. Butterworth’s, reading, Massachusetts.

Motivazione ad apprendere: tra sfida e conquista

Motivazione ad apprendere: tra sfida e conquista

Chi di voi si presta a fare volentieri qualcosa che gli riesce male o in cui sa di fare fatica?

Se a me, ad esempio, chiedessero di improvvisarmi in un balletto, risponderei rifiutandomi; la danza infatti, nonostante i corsi frequentati per diversi anni della mia infanzia, non è mai stata il mio forte e non mi sono mai sentita realmente motivata rispetto ad essa.

Ed è proprio di questo che voglio parlarvi – non di danza ovviamente – bensì di MOTIVAZIONE, parola che deriva dal latino motus (movimento) e che per definizione rappresenta la spinta verso un obiettivo predeterminato.  Due sono i tipi di motivazione che possiamo distinguere:

  • La motivazione estrinseca, ovvero la motivazione sostenuta da un rinforzo esterno quale un vantaggio tangibile (ad esempio un premio, un bel voto, ecc) o simbolico (ad esempio l’essere lodato, il ricevere un complimento); allo stesso modo, le azioni mosse dalla motivazione estrinseca possono caratterizzarsi per l’evitamento di situazioni spiacevoli (venire sgridati, fare brutta figura, ecc).
  • La motivazione intrinseca, diversamente, è quel tipo di motivazione che ci porta ad agire per il puro interesse verso ciò che si fa, senza la necessitò di ricompense o il timore di punizioni. 

Questa distinzione è già di per sé interessante ma lo diventa ancor di più se applicata rispetto al tema dell’apprendimento. La scuola infatti è il luogo per eccellenza in cui i bambini imparano ad interfacciarsi con i propri aspetti emotivo-motivazionali. Pensate ad esempio a quanto sono comuni frasi tipo “non sono capace”, “non ce la faccio” e a quanto è altrettanto comune il pensiero di genitori e insegnanti “gli manca la motivazione”. 

Ritorniamo per un momento ai due tipi di motivazione calandoli nel contesto scolastico:

  • Lo studente guidato dalla motivazione estrinseca è colui che si orienta verso obiettivi di tipo prestazionale avendo come fine ultimo l’approvazione sociale. 
  • Lo studente mosso da una motivazione intrinseca è invece colui che desidera acquisire nuove competenze, per sé stesso e per nessun altro; è colui che si pone i cosiddetti obiettivi di padronanza, mettendo da parte i timori legati alle prestazioni e l’ambizione a raggiungere necessariamente un risultato positivo. 

Se da un lato la motivazione intrinseca (“lo faccio per me”) è raramente associata a percezione di scarsa competenza e a sentimento di inadeguatezza, la motivazione estrinseca (“lo faccio per gli altri”) porta con sé non solo il rischio sentirsi poco competenti, ma anche la probabilità di non impegnarsi in maniera costante, attribuendo spesso a sé stessi la causa dell’insuccesso, e – talvolta – conducendo all’evitamento delle situazioni connesse all’apprendimento.

Come fare quindi per favorire una motivazione nell’apprendimento?

È importante sostenere una buona motivazione nell’apprendimento, ecco allora qualche piccolo consiglio da poter seguire:

  • Aiutare i ragazzi a riconoscere ed accettare i propri limiti e le proprie unicità;
  • Fornire vie alternative per raggiungere un risultato perché non esiste un modo uguale per tutti bensì il modo giusto per ognuno;
  • Introdurre un metodo di studio efficace portando i ragazzi ad alimentare il proprio senso di competenza;
  • Rinforzare i ragazzi nel momento in cui si impegnano in prima persona nel raggiungimento di un piccolo o grande obiettivo;
  • Stare vicini ai ragazzi a patto che non ci sostituiamo a loro, affinché possano trovare il loro modo per riuscire.

Perché alla fine tutti i bambini e i ragazzi che si mostrano a noi come scarsamente motivati nello studio, ci stanno in realtà chiedendo di essere supportati e accompagnati al fine di collezionare strategie e possedere adeguati strumenti per affrontare il loro cammino scolastico con maggior fiducia ed ottimismo.

Benedetta Levorato

Psicologa dell’età evolutiva

Bibliografia

  • De Beni R. e Moè A. (2000), Motivazione e apprendimento, Bologna, il Mulino.
  • Bandura A. (), Autoefficacia: teoria e applicazioni, Trento, Erickson.
  • Mason L. (2019), Psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione, Bologna, il Mulino.
Chi è il logopedista?

Chi è il logopedista?

“Il logopedista è l’operatore sanitario che, in possesso del diploma universitario abilitante, svolge la propria attività nella prevenzione e nel trattamento riabilitativo delle patologie del linguaggio e della comunicazione in età evolutiva, adulta e geriatrica (art 1 del Decreto Ministeriale 14 settembre 1994, n.742)”

In altre parole, l’attività del logopedista è volta all’educazione e rieducazione di tutte le patologie che provocano disturbi della voce, della parola, del linguaggio orale e scritto e degli handicap comunicativi.

Cosa fa il logopedista?

In riferimento alla diagnosi e alla prescrizione del medico, possiamo immaginare questo lavoro come un percorso fatto a tappe; una prima tappa è rappresentata dalla valutazione che il professionista effettua, a cui fa seguito  la stesura del piano d’intervento all’interno del quale sono descritti  i relativi obiettivi terapeutici, che vengono eseguiti  all’interno di un progetto condiviso con una equipe multi-professionale. In contemporanea, un’altra tappa importante viene svolta insieme alla famiglia sostenendola attraverso attività di counseling,  e  condividendo con essa obiettivi e strategie. Ed infine monitora gli obiettivi raggiunti.

Come si diventa logopedisti?

Il cammino per esercitare la professione di logopedista inizia dopo aver conseguito una laurea triennale in logopedia che rilascia il titolo abilitante all’esercizio professionale. Il logopedista collabora con tutte quelle figure a lui complementari, dal foniatra allo psicologo dell’età evolutiva e non solo.

Quando si ha bisogno del logopedista?

Ti rivolgi ad un logopedista se ti stai ponendo queste domande: 

“perché non parlo bene?”;

“perché mio figlio non parla o parla male?”

“come posso fare a parlare meglio?”;

“perché non capisco quello che ascolto?”;

 “perché ho la voce rauca, come posso curarla”;

“perché balbetto”;

“perché il mio bambino pronuncia male alcune lettere?”;

“perché il mio bambino non sa leggere, scrivere bene?”

“perché mentre mangio mi affogo?”

  nello specifico si occupa delle seguenti patologie: 

–      Disturbi della fluenza (Balbuzie)

–      Disturbi dell’udito (sordità)

–      Disturbi della voce (disfonia)

–      Disturbi neuropsicologici da danno acquisito (afasia, disartria, agnosia, disfagia, aprassia)

–      Disturbi evolutivi: disturbi della comunicazione, disturbi del linguaggio, disturbi specifici d’apprendimento. 

 

È importante rivolgersi a un professionista che, come hai letto oltre al sapere e al saper fare, ti aiuterà anche a comprendere e a stare meglio.

Dott.ssa Gabriella Laurino

Logopedista

GIOCANDO, noi cresciamo!

GIOCANDO, NOI CRESCIAMO!

L'importanza del gioco

Il gioco è lo strumento principale con cui il bambino conosce il mondo. Giocare è terapeutico, giocare è esplorazione, giocare è emozione, giocare è sensorialità, giocare è sviluppare creatività e problem solving. Non posso immaginare che ai bambini venga negata la possibilità di giocare, perché presi dai troppi impegni e dai troppi compiti. Ogni età ha delle tappe fondamentali, ecco perché come psicomotricista funzionale® e come terapista Dirfloortime® sostengo la calma, l’affettività, la lentezza, il giocare, e tutte le esperienze sensori-motorie. 

La Psicomotricità Funzionale®

La Psicomotricità funzionale®, per chi non lo sapesse, è una scienza e metodologia educativa che favorisce lo sviluppo della persona per mezzo del movimento e mira allo sviluppo in tutte le sue sfumature. Aiuta a trovare e sviluppare potenzialità nascoste dentro ognuno di noi, aiuta a scoprire tutte le risorse possibili, aiuta a trovare il modo di capire e regolare le emozioni. Questo tipo di psicomotricità si distingue da altre tipologie, per la complessità dello studio del movimento, in quanto consente di indagare ed agire sul quadro neurologico, biologico, funzionale. 

L’approccio Dirfloortime®

Il Dirfloortime®, invece, è un modello multidisciplinare che supporta la regolazione emotiva, il benessere del bambino, la processazione sensoriale, lo sviluppo motorio, cognitivo e linguistico utilizzando la prospettiva del bambino stesso, valorizzando la sua libera iniziativa, i suoi interessi e le sue relazioni affettive di riferimento. Punto di forza del modello DIR è quello di lavorare sulle “differenze” per modificare il comportamento e ottenere risultati a un livello profondo, in tutte le aree di sviluppo. 

Ciò che io amo di queste metodologie e ciò che amo del mio lavoro, è il rispetto verso i bambini con cui ci si approccia, a differenza di altri metodi. Rispetto, accoglienza, non giudizio, affettività, sono alla base di un percorso cucito su ogni bambino e sulle sue esigenze. Ecco perché giocare diventa fondamentale. Che poi, se ci pensate bene, “solo” giocare non è affatto, è lo strumento con cui noi ci approcciamo al mondo dei bambini. E voi cosa pensate del gioco, della lentezza e del rispetto verso i bambini? 

Mi chiamo Laura Garrone e come mi definiscono alcuni genitori, sono la “dottoressa dei giochi”. Ma per essere precisi, sono Pedagogista Clinico, Psicomotricista Funzionale®, Neuropedagogista e Terapista Dirfloortime® e potete trovarmi allo Studio Progetto Vita ogni venerdì. 

Giovani… o adulti? Il giovane adulto al giorno d’oggi

In questo articolo, proverò a spiegarvi un po' più da vicino cosa significa diventare adulti oggi.

In questo articolo, proverò a spiegarvi un po’ più da vicino cosa significa diventare adulti oggi.

La condizione dei giovani adulti, cioè dei ragazzi tra i 19 e i 29 anni, infatti è caratterizzata sempre più spesso al giorno d’oggi dal cosiddetto fenomeno di “moratoria psicosociale”. Quest’ultimo, che si configura come una sorta di prolungamento del periodo dell’adolescenza, porta a osservare uno sfasamento tra l’aspetto biologico e quello sociale.

Ai tempi dei nostri nonni, ma anche dei nostri genitori, l’entrata nell’età adulta avveniva con un processo più precoce e delineato, che prevedeva l’uscita da casa, l’inizio del lavoro e il matrimonio. Oggi la precarietà delle condizioni sociali ed economiche porta a un’instabilità del proprio ruolo sociale e a successive esplorazioni identitarie che, se prolungate, possono comportare un vero e proprio blocco evolutivo.

Gli studi universitari o la crisi del lavoro, che tipicamente vede l’alternarsi di contratti precari, non favoriscono quel senso di stabilità personale ed economica necessario alla crescita. La difficoltà ad affrontare i compiti legati all’acquisizione dell’età adulta e il confronto con le aspettative genitoriali rappresentano per alcuni giovani adulti motivo di crisi che si configura come un periodo di sospensione nei confronti di impegni e di scelte definitive, che per alcuni può condurre a una condizione di indeterminatezza dell’identità. L’accumularsi di aspettative e di dubbi relativi al futuro costituiscono spesso fattori di stress e di perdita della motivazione ad affrontare le sfide che man mano si presentano.
La transazione all’età adulta influenza l’intera famiglia. I giovani adulti, infatti, spesso scelgono di rimandare l’uscita di casa, prolungando la propria permanenza a casa.

Quali sono le conseguenze psicologiche di questa condizione?

La mancanza di stabilità sociale conduce alcuni giovani adulti a quella condizione di ‘blocco’ sia in termini di sospensione delle attività di studio e sia di ingresso nel mondo del lavoro, che si accompagna a una generale mancanza di prospettive positive rispetto a un futuro che appare grigio e incerto. questo genera nei giovani incertezza e disorientamento rispetto alla propria identità e alle scelte indispensabili per la propria crescita, traducendosi in un vissuto di profondo disagio che può rendere necessario l’intervento psicologico.
Il giovane che non riesce ad esprimere appieno le proprie potenzialità di adulto, secondo alcuni autori, evidenzia un conflitto tra individuazione, in termini di acquisizione di un ruolo sociale stabile (lavoro, vita di coppia), e alienazione, con incertezza legata al proprio ruolo e alla propria identità. Ciò genera diverse conseguenze sul piano psicologico in termini di ansia, rabbia, tristezza, difficoltà relazionali, crollo dell’autostima. Tutto questo può ulteriormente condurre a condotte di uso inappropriato di cibo e alcol, assunzione di sostanze, somatizzazione e ritiro sociale.

Quali consigli sono utili in questi casi?

Per cercare di affrontare nel quotidiano le difficoltà legate a questo periodo del percorso evolutivo è consigliabile:

  • Focalizzarsi sul presente e procedere per piccoli step;
  • Proporsi piccoli obiettivi progressivi che permettano poi di raggiungere passo per passo la meta desiderata, come ad esempio focalizzarsi su un singolo esame universitario, per gli studenti, o sul proprio lavoro anche se per il momento fatto di brevi contratti.

Questi singoli passi sono quelli che uno dopo l’altro porteranno alla meta, se si avrà costanza e impegno.

Diana Mabilia
Psicoterapeuta e psicologa del lavoro

Bibliografia:

  • Benson, J. E., & Elder Jr, G. H. (2011). Young adult identities and their pathways: a developmental and life course model. Developmental psychology, 47(6), 1646.
  • Keniston, K. (1970). Youth: A” new” stage of life. The American Scholar, 631-654.
  • Lingiardi, V., & Giovanardi, G. (2017). Challenges in assessing personality of individuals with gender dysphoria with the SWAP-200. Journal of endocrinological investigation, 40(7), 693-703.
  • Scabini, E., & Cigoli, V. (2012). Alla ricerca del famigliare. Il modello relazionale-simbolico. Cortina.
Quando e come chiedere un aiuto ad un professionista dell’età evolutiva?

Quando e come chiedere un aiuto ad un professionista dell'età evolutiva?

Vi sembra di notare qualcosa di “strano” nei vostri bambini? Si comportano in modo “diverso” rispetto ai compagni della stessa età? Siete preoccupati che possa esserci qualcosa che non va? A questo punto la domanda sorge spontanea: ma quando possiamo chiedere aiuto a qualcuno? È troppo presto? Conviene aspettare perché si tratta solo di un “periodo”? O forse è già troppo tardi?

Sono mille i dubbi che affliggono i genitori appena notano qualche segnale che li preoccupa. Cerchiamo insieme di fare chiarezza!

Ricordiamoci che ad ogni piccolo segnale o campanello d’allarme è sempre meglio monitorare la situazione e prendere nota di cosa sta succedendo, in modo da poter riferire tutti i dubbi al professionista dell’età evolutiva a cui ci rivolgiamo.

Il primo step è sicuramente chiedere consiglio al proprio pediatra di fiducia, il quale saprà indirizzarvi dallo specialista più adatto alla situazione. È importante, però, che anche voi genitori sappiate che esiste una figura professionale specifica per ogni problematica. Vediamo insieme le principali differenze:

  • Lo psicologo dell’età evolutiva è in grado di svolgere un’approfondita valutazione a 360° gradi, analizzando le principali aree di sviluppo dei bambini (area del linguaggio, sfera cognitiva e degli apprendimenti, aspetti emotivi e comportamentali e molto altro).
  • Se ci riferiamo a ragazzi pre-adolescenti o adolescenti che ritengono di aver bisogno di uno spazio in cui poter parlare con qualcuno, lo psicoterapeuta può essere la figura adatta per sostenerli attraverso un percorso di supporto emotivo e psicologico. 
  • Se i vostri bimbi o ragazzi hanno difficoltà nella programmazione dello studio o nel gestire situazioni emotive, allora un educatore può fare al caso vostro, supportandovi con materiali e strategie utili da applicare anche nel contesto domiciliare. 
  • Se la fragilità si manifesta soprattutto nel dominio del linguaggio, ad esempio a livello di pronuncia delle paroline, il logopedista è il professionista ad hoc.
  • Se notate delle difficoltà a livello di coordinazione, nell’acquisizione delle tappe dello sviluppo motorio, o delle anomalie di tipo sensoriale, dovete sapere che esiste anche la figura dello psicomotricista

Per individuare la figura che fa al caso vostro, il consiglio è quello di recarvi presso un centro multidisciplinare: il responsabile della sfera dell’età evolutiva, dopo aver svolto un’approfondita consulenza, saprà indirizzarvi verso il professionista più adatto per voi e per i vostri figli.

Sottolineiamo un concetto essenziale: la precocità! Prima interveniamo con un’adeguata presa in carico, prima possiamo risolvere la problematica e modificare la sua traiettoria evolutiva in modo favorevole; se, al contrario, la trascuriamo, questa si può strutturare in un tratto stabile, rendendo più difficile il lavoro terapeutico e le possibilità di esito positivo. 

Permettere la realizzazione di un intervento precoce è il miglior regalo che un genitore possa fare al proprio figlio!

Dott.ssa Zaghini Chiara

Dottoressa in Psicologia dello Sviluppo

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Durante la scuola dell’infanzia i bambini cominciano a sviluppare alcune abilità che consentiranno loro di imparare a leggere e a scrivere: si tratta dei prerequisiti dell’apprendimento, i quali coinvolgono diverse funzioni cognitive che rivestono un importante ruolo in termini predittivi per i futuri apprendimenti scolastici. L’acquisizione di queste abilità facilita infatti il processo di apprendimento e favorisce un positivo inizio della scolarizzazione. Già durante la scuola dell’infanzia i bambini cominciano a sviluppare idee e conoscenze sulla lingua scritta. Quando arrivano in primaria alcuni di loro procedono speditamente e acquisiscono in fretta la capacità di sintesi e analisi fonemica. Altri invece manifestano delle difficoltà già dalle prime fasi di apprendimento, poiché non possiedono, o possiedono solo in parte i prerequisiti che facilitano il processo di apprendimento della lettura e scrittura.

Andiamo più affondo e scopriamo in che cosa consistono?

Abilità metafonologiche: riguardano la capacità di percepire e riconoscere i fonemi che compongono le parole effettuando delle trasformazioni con essi. Tra queste rientrano il riconoscimento e la produzione di rimericonoscimento delle somiglianze e differenze tra i fonemi iniziali di una parola, capacità di fusione (riconoscere una parola dopo aver ascoltato i fonemi o le sillabe che la compongono), segmentazione (scomporre una parola nei suoni che la compongono), spoonerismo (invertire fonemi tra due parole date).

Analisi visiva: capacità di saper riconoscere i grafemi e individuare differenze in base alla forma e all’orientamento spaziale.

Analisi e discriminazione uditiva: capacità di discriminare i suoni linguistici e percepire le differenze.

Memoria fonologica a breve termine: mantenere in memoria suoni per un breve periodo di tempo.

Serialità visiva: elaborare gli stimoli in modo ordinato.

Coordinazione oculo manuale: coordinare l’occhio con i movimenti della mano e trascrivere graficamente i grafemi grazie alle abilità di motricità fine.

Associazione visivo verbale: denominare rapidamente figure oggetti o simboli recuperando l’etichetta lessicale.

Abilità Visuo-Percettive: le capacità di discriminazione visiva e di riconoscere lo stimolo in forma globale anche quando viene presentato solo in parte.

Denominazione rapida: nominare rapidamente una sequenza ripetuta di lettere, oggetti, numeri.

Diventa quindi importante individuare precocemente eventuali situazioni a rischio, per poter intervenire e potenziare le abilità carenti, e ricostruire così quei “mattoncini più fragili”.     

Andiamo a capire assieme quali sono i prerequisiti delle competenze di numero e calcolo…

Lo sviluppo delle competenze di numero e calcolo è permesso da due tipologie di prerequisiti:

Capacità di distinguere in modo rapido la quantità corrispondente ad un numero di oggetti ridotto (da 1 a 4). 

Insieme alle abilità di conteggio si sviluppano le competenze simboliche che permettono al bambino di riconoscere i numeri scritti, leggerli e associarli alla rispettiva quantità.

Memoria e abilità linguistiche permettono il calcolo a mente, la risoluzione dei problemi aritmetici e il recupero delle informazioni.

Come capire se qualcosa non va?

La rilevazione delle aree di difficoltà può essere svolta tramite screening, un processo valutativo svolto da professionisti specializzati. Nel caso emergano alcune lacune relative alle competenze precedentemente descritte, alla famiglia può essere consigliato un percorso mirato al potenziamento di queste abilità, per sostenere e promuovere in modo efficace l’apprendimento. 

Lo sviluppo e l’acquisizione dei prerequisiti descritti è fondamentale affinché i successivi apprendimenti possano poggiarsi su solide basi. Nei prossimi articoli vedremo alcuni giochi che genitori e insegnanti possono proporre per stimolare e potenziare i prerequisiti della lettura e della scrittura. 

A cura della Dott.ssa Mara Gazzi 

Psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale 

Bibliografia

Brignola M., Perrotta E. e Tigoli M.C. (2012), Sviluppare i prerequisiti per la scuola primaria: giochi e attività su attenzione, logica, linguaggio, pregrafismo, spazio e tempo, Trento, Erickson.

Cacopardo I., Cannici F., Raffi F. e Marotta L. (2017), I prerequisiti dell’apprendimento della lettura e della scrittura. In M. Benassi, S. Giovagnoli e L. Marotta (a cura di), Lo screening dei prerequisiti: Progettazione e valutazione per un intervento efficace nella scuola dell’infanzia, Trento, Erickson, pp. 25-35.

Marotta L., Ronchetti C., Trasciani M. e Vicari S. (2008), Valutazione delle competenze metafonologiche (CMF), Trento, Erickson.

Varvara P. (2013), Le Funzioni Esecutive: modelli neuropsicologici di riferimento. In L. Marotta, P. Varvara (a cura di), Funzioni Esecutive nei DSA – Disturbo di lettura: valutazione e intervento, Trento, Erickson, pp. 29-34.

Superare il trauma con l’EMDR

Superare il trauma con l'EMDR

Quando una persona soffre emotivamente a causa di eventi stressanti o traumatici, l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) ovvero una tecnica che prevede la desensibilizzazione e la rielaborazione del ricordo attraverso i movimenti oculari, è un intervento adatto alla “cura” del trauma. Questa tecnica attraverso movimenti oculari alteranti, favorisce la comunicazione degli emisferi cerebrali in riferimento all’evento e la rielaborazione del suo ricordo.

Nello specifico il principio di base dell’EMDR (Francine Shapiro, 1989) è che i traumi siano così difficili da elaborare perché rimangono “bloccati” nell’emisfero destro, deputato all’elaborazione delle emozioni. Il fatto di non riuscire ad accedere all’emisfero sinistro, più logico e razionale, non permette l’elaborazione e l’attribuzione di un significato “diverso” all’evento. La stimolazione bi-emisferica attraverso il movimento degli occhi favorisce l’integrazione delle informazioni dei due emisferi permettendo il passaggio “del trauma” alla fase cognitiva.

Ma quando possiamo parlare di trauma? Cosa intendiamo con questo termine?

Per trauma si intende qualunque evento che una persona vive come estremamente stressante e quindi non ci si riferisce solo a solo esperienze riguardanti catastrofi ambientali, aggressioni fisiche, o di abuso, ma anche a situazioni di trascuratezza o mancato accudimento o circostanze in cui la persona si è sentita umiliata, giudicata in modo molto offensivo, oppure eventi critici più o meno improvvisi come un divorzio, la perdita del lavoro, un lutto, oppure la chiusura improvvisa di una relazione importante, un rifiuto o un intervento ma anche un ospedalizzazione o ricovero. 

Può capitare che a seguito di questi eventi la persona non riesca a gestire in modo razionale le informazioni o i ricordi connessi all’episodio e questo fa sì che la persona viva un continuo stato di malessere fisico ed emotivo. E’ come se il ricordo dell’evento traumatico rimanesse intrappolato nella mente portando la persona a percepire un continuo stato di allarme e a sentire ancora presente il pericolo o il trauma avvenuto in passato.

Aver vissuto un evento traumatico può comportare conseguenze non solo a livello emotivo, ma anche a livello comportamentale. Può succedere ad esempio, a seconda dell’età della persona, che compaiano sintomi come il fare la pipì a letto, disturbi del sonno e quindi incubi, difficoltà nell’addormentamento o nella regolarità della qualità del sonno, oppure balbuzie. In relazione a un trauma possono presentarsi anche disturbi a livello alimentare, problematiche dermatologiche ecc. 

Indipendentemente dal tipo di sintomo è importante sottolineare che l’impatto del trauma è soggettivo.  Dipende dalle caratteristiche della persona, come vive e come dà significato alle sue emozioni; dipende da come quella persona “ragiona” e dall’ambiente in cui vive. 

Inoltre proprio per la diversità per cui una situazione o un evento può risultate traumatico, questo è molto più frequente di quanto si pensi e rappresenta uno dei principali fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi psicologici, come ad esempio l’ansia o il disturbo post-traumatico da stress.

Ma COME SI PRATICA la terapia EMDR?

Solitamente la terapia EMDR prevede un percorso breve di un incontro a settimana e può essere praticato sia con gli adulti che con i bambini. 

Quanto prima si interviene tanto è più facile rielaborare il ricordo traumatico proprio perché il sintomo che ne può derivare avrà una storia più breve. Nella pratica EMDR, come per qualunque altra terapia, è fondamentale rispettare i tempi della persona sia per quanto riguarda il sentirsi pronta a lavorare sul trauma che la motivazione a farlo. Durante una seduta di EMDR viene poco a poco elaborato il ricordo dell’esperienza traumatica e questo permette alla persona di cambiare prospettiva sull’evento, sulle valutazioni che aveva su di sé in merito al trauma, associando emozioni più funzionali alla situazione ed eliminando le reazioni fisiche disturbanti. In questo modo la persona può riprendere la quotidianità.

Dott.ssa Ceotto Alice

Psicologa dello Sviluppo e dell’Educazione

Terapeuta Emdr